Messico: Ciudad Juarez è la città che uccide le donne
Pochi giorni fa, l’ennesima sfilata per ricordare che il Messico è la città che uccide le donne.
Una sfilata organizzata nella capitale della città, nella quale attiviste e parenti delle vittime si sono uniti per gridare e chiedere la loro giustizia: 100 croci viola, 100 nomi di donne uccise. Questo è quello che rimane dopo decenni e decenni di massacri, stupri e omicidi macabri.
«Non sono morte di vecchiaia – dicono – sono state uccise». E nella maggior parte dei casi non esiste un viso colpevole da poter guardare e dunque non esiste pace né rassegnazione.
Non è la prima marcia organizzata in Messico. Se ne sono susseguite molte per denunciare un fenomeno – quello del femminicidio – sanguinario e mostruoso, radicato in un sistema criminale che fa soltanto da cornice ad uno scenario politico e culturale completamente disinteressato anche solo a contare le sue vittime.
Messico, donne truccate da Sacra Morte contro il femminicidio
Secondo i canali ufficiali soltanto a giugno 2019, 79 sono state le donne uccise in Messico. A fare la stima di questa strage è UN Women (United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women): nove donne vengono uccise ogni giorno in Messico e sei su dieci hanno subito almeno un episodio di violenza. Per la precisione: «il 41,3% delle donne è stato vittima di violenza sessuale e, nella sua forma più estrema, nove donne vengono uccise ogni giorno».
Ciudad Juarez: il cimitero delle donne
Ciudad Juarez è il palcoscenico di questo orrore: la città simbolo del femminicidio. Qui è stata consacrata una collina alle vittime.
Ciudad Juarez, La collina in ricordo delle vittime
I messicani la chiamano la “città che uccide le donne”. È una cittadina industriale, la frontiera tra Messico e Stati Uniti, costretta alle sevizie dietro un muro di contenimento che blocca il passaggio da uno Stato all’altro.
La storia delle donne uccise in questa città inizia negli anni ’90, quando vengono ritrovati i primi corpi senza vita di giovani donne sotterrate nel deserto di Juarez.
Nel corso di questi 30 anni attiviste e studiose si sono mobilitate per fare ricerche e proporre allo Stato ipotesi e soluzioni concrete per far fronte al problema, ma finora l’unica reazione ottenuta è stata la militarizzazione coatta del territorio che, a sua volta, ha ulteriormente aggravato la situazione di precarietà e insicurezza.
Lo scopo della militarizzazione è principalmente la lotta ai cartelli della droga, ma la guerra al narcotraffico ha aumentato esponenzialmente il grado di violenza nei confronti dei civili: negli ultimi nove anni sono morte 1.200 donne.
Insieme alla militarizzazione, anche la crisi economica e il degrado che ne consegue hanno contribuito ad instaurare un legame pericoloso tra forze dell’ordine e criminalità. I movimenti femministi denunciano da anni il coinvolgimento diretto dei corpi di polizia nei reati contro le donne, non solo dunque noncuranza e negligenza rispetto al fenomeno. Nel conflitto tra cartelli e esercito si confondono ormai le rispettive responsabilità.
Come spiega Amnesty International, lo scorso anno ha registrato «uno spiccato aumento del numero di omicidi, con 42.583 casi documentati in tutto il paese», aggiungendo inoltre che la presenza stabile delle forze armate sul territorio non gode di alcuna «disposizione efficace che garantisca trasparenza, accertamento delle responsabilità e controllo civile».
Non donne, ma corpi da spezzare
Le donne messicane sono donne senza umanità. Non sono considerate persone.
Ad aumentare non è solo il numero di omicidi, ma anche la ferocia con cui vengono eseguiti: sempre più frequentemente ad essere rinvenuti sono soltanto i frammenti dei corpi delle vittime.
Chi sono queste donne? La maggior parte ha un’età compresa tra i 15 e i 25 anni. Sono per lo più donne emigrate a Ciudad Juárez per lavorare nelle maquilladoras, le industrie tessiti e di montaggio delle imprese americane situate lungo la frontiera, in cui vengono assunte soprattutto minorenni, più facili da addomesticare e gestire. È nei viaggi di ritorno dalle fabbriche che molte di queste ragazze spariscono, per poi essere ritrovate – quando possibile – violentate e senza vita.
A morire, troppo spesso, non sono soltanto giovani donne ma bambine. Tra queste, Valeria (11 anni) tornava da scuola in autobus, ma suo padre che la stava aspettando non l’ha mai vista scendere. Il corpo della bambina è stato trovato il giorno successivo su uno dei sedili dell’autobus. È stata uccisa, dopo essere stata abusata sessualmente.
Ed era una bambina, vittima di violenza domestica, anche quella ritrovata morta dentro una valigia abbandonata in un posto pubblico. È stata trovata perché dalla valigia usciva del sangue.
La mappa del femminicidio messicano
Il femminicidio in Messico sembra non avere più un perimetro, ha raggiunto dimensioni così allarmanti che, per essere compreso a pieno, ha bisogno di una mappa che aiuti a non perdere contezza dello scempio.
Screenshot mappa dei femminicidi di Maria Salguero – settembre 2018
L’idea è stata di un’attivista per i diritti umani, María Salguero, che ha deciso di mappare i casi di femminicidio. La sua è controinformazione: i canali ufficiali puntano a ridimensionare il fenomeno, scegliendo di non riportare all’attenzione pubblica tutti i casi. Agli inizi del 2019, Salguero infatti aveva registrato più di 6.000 casi di femminicidio a partire dal 2011, di cui almeno 4.000 assassini sono rimasti impuniti, perché fuggitivi.
La mappa degli omicidi è il simbolo di questo femminicidio. L’esigenza di mappare, di fissare i punti delle morti, può nascere soltanto di fronte ad un fenomeno fuori misura, che esce dall’umana comprensione.