Il Dragone è circondato: i confini cinesi sono l’incubo di Pechino
Dalla Corea del Nord a Taiwan, dal Tibet a Hong Kong
È la più grande economia del globo (davanti a Stati Uniti e Unioni Europea), è la nazione più popolosa del pianeta e il terzo Paese al mondo per estensione: eppure la gigantesca Cina mostra pericolosi segnali di crisi, soprattutto nelle aree periferiche in cui Pechino ha un controllo minore.
Dalla Corea del Nord (autentica spina nel fianco del gigante asiatico) a Taiwan, dai confini occidentali (terreno di scontro con l’India e ultima frontiera del terrorismo internazionale) a Hong Kong, roccaforte finanziaria mossa da spinte autonomiste, non c’è un solo confine tranquillo per la Cina.
Corea: missili USA e minacce nucleari – L’attenzione del mondo in questo periodo è tutta per il dittatore folle nordcoreano Kim Jong-un, potenzialmente in grado di scatenare un conflitto nucleare con gli Stati Uniti proprio a due passi dalla capitale cinese. Pechino, principale partner commerciale e strategico della Corea del Nord, si trova in una posizione decisamente scomoda. Da una parte c’è l’amministrazione Trump, pronta ad agire contro Pyongyang anche senza l’appoggio cinese (l’installazione del sistema antimissile americano THAAD è già pronto e operativo nella Corea del Sud); d’altra parte bisogna tenere conto di una questione di principio: può la Cina comunista (di nome quantomeno) intraprendere iniziative militari contro un altro Paese comunista come la Corea del Nord? Senza poi ignorare il fatto che, in un’ottica di supremazia in Asia e nel Pacifico, avere una Corea unificata sotto la guida di Seoul, alleato imprescindibile degli USA, aggiungerebbe un altro Paese ‘ostile’ alla lista già lunga dei confini traballanti cinesi.
Per Pechino forse è meglio una scheggia impazzita ma gestibile come Kim che una Corea forte e filostatunitense alle porte.
Taiwan, ‘l’altra Cina’ – Due storie molto diverse. Taiwan è un Paese indipendente de facto (anche se la Cina lo rivendica come sua provincia alle dipendenze di Pechino), che però non gode di un vero e proprio riconoscimento internazionale. Ad oggi solamente una manciata di Stati lo riconoscono – tra cui la Città del Vaticano – mentre la maggior parte dei big (dalla Cina alla Russia agli USA fino all’Unione Europea) ne nega lo status di nazione, riconoscendo come legittimo governo cinese quello di Pechino, ma intraprende con l’isola relazioni commerciali.
Dal 2006, con la proclamazione di una legge anti-secessione in Cina, la possibilità di una occupazione militare di Taipei da parte della Cina continentale è diventata una possibilità sempre più concreta. Gli USA, per scongiurare tale eventualità, mantengono una portaerei con relativo gruppo navale stabilmente nello stretto di Taiwan.
Una eventuale azione militare di Pechino in tal senso causerebbe la rottura delle relazioni con Washington e chiamerebbe in causa la SCO (Shangai Cooperation Organization, un’alleanza di sei Paesi asiatici che include Cina, Russia e repubbliche ex-sovietiche ma che si aggiunge ad includere anche India e Pakistan e che potrebbe accogliere anche altri importanti alleati nel continente come Iran e Turchia: in sostanza si tratta di una risposta russo-cinese alla NATO in funzione antiamericana in Asia).
I rapporti trilaterali Cina-Taiwan-USA al momento sono stabili ma la tensione sta crescendo dopo la chiamata al telefono tra Trump e la Presidente di Taiwan Tsai Ing-wen, prima di un Presidente americano dai tempi della Guerra Fredda e un chiaro segnale che Pechino e Washington potrebbero avere differenti idee sull’interpretazione del concetto di ‘una sola Cina’.
Hong Kong, la Rivoluzione degli Ombrelli – La piccola provincia meridionale, ceduta dal Regno Unito solamente nel 1997, rappresenta un caso piuttosto particolare: gode infatti di una enorme autonomia rispetto al governo centrale, con un sistema legislativo e una magistratura autonome, persino una propria valuta slegata dallo Yuan continentale (il dollaro di Hong Kong è la tredicesima valuta più scambiata sui mercati finanziari globali): ‘una Cina, due sistemi’.
E soprattutto, rispetto all’ideologia classica comunista di cui è intrisa la propaganda di Pechino, rappresenta un’isola di capitalismo sfrenato, uno dei centri finanziari più importanti del mondo insieme a New York, Londra, Francoforte e Tokyo.
Questo alto grado di autonomia ha però portato a una serie di scontri con Pechino, soprattutto sui temi delle libertà civili e politiche. Risale al 2014 la manifestazione più imponente, la cosiddetta ‘Rivoluzione degli Ombrelli’, in risposta a un tentativo del governo continentale di riformare il sistema elettorale della provincia.
In breve tempo le vie e le piazze di Hong Kong, con l’ausilio della rete , si sono riempite di una folla oceanica, soprattutto studenti e dipendenti pubblici. Pechino, per sedare la protesta, ha agito come sempre agiscono i governi repressivi: polizia in tenuta antisommossa, gas lacrimogeni, cariche delle forze dell’ordine e arresti. Nonostante il tentativo del governo continentale di oscurare la rete (una pratica consueta in Cina) le immagini della Rivoluzione degli Ombrelli e delle violenze della polizia hanno fatto il giro del mondo causando un imbarazzo notevole a Pechino che ha comunque chiuso la questione senza fare concessioni ai movimenti contestatori
Tra l’autunno 2016 e la primavera 2017 c’è stata una serie di tornate elettorali, con molti dei movimenti di protesta che si sono coalizzati e si sono candidati formando dei veri e propri partiti politici per strappare Hong Kong al governo centrale, conclusasi però con la nomina da parte di Pechino (attraverso una ‘elezione farsa’) di Carrie Lam alla guida della città. Si tratta della prima donna a ricoprire una tale carica ma è anche espressione dell’establishment del Partito. Il leader degli studenti, Joshua Wong, ha criticato una scelta simile promettendo disobbedienza civile quando in estate arriverà il Presidente cinese Xi Jinping in visita.
Hong Kong è storicamente legata all’occidente, una porta sempre aperta sul mondo esterno in cui il governo di Pechino non può agire senza esporsi all’opinione pubblica internazionale e alle conseguenze finanziarie.
Confine ovest, Tibet e terrorismo – Le province più grandi della Cina sono anche quelle che potenzialmente potrebbero causare i maggiori problemi al gigante asiatico: Tibet e Xinjiang sono infatti, per motivi profondamente diversi, spine nel fianco di Pechino.
Il Tibet, con il governo del Dalai Lama in esilio in India, è stato più volte fonte di imbarazzo per il governo di Xi Jinping. Tra la diplomazia dei carri armati e le scene dei monaci tibetani che si sono dati fuoco che hanno fatto il giro del mondo, Pechino si trova costretta a dover mediare un accordo che garantisca il controllo sulla regione e che allo stesso tempo legittimi l’impiego della forza e dell’esercito per sedare spinte secessioniste.
Il Dalai Lama ha ammorbidito la sua posizione in tal senso chiedendo ‘solo’ che vengano rispettati i diritti fondamentali dei cittadini e non più che venga concessa l’indipendenza del Tibet. Ma la questione religiosa e soprattutto la nomina del successore del Dalai Lama potrebbe portare a un serio conflitto diplomatico e forse anche militare con l’India, che al momento ospita l’autorità religiosa e che con la Cina ha dei contenziosi sempre aperti sui passi montani dell’Himalaya. Pechino ha posto sotto custodia il bambino nominato come prossimo Dalai Lama (lui e la sua famiglia sono in una ‘località protetta’ secondo fonti ufficiali ma di fatto sono spariti) intervenendo direttamente in questioni di carattere religioso. Per fare un paragone, è come se lo stato italiano pretendesse di scegliere il prossimo Papa inserendosi nei meccanismi ecclesiastici.
L’altra grande religione che mette a dura prova la Cina è l’Islam, nella provincia nordoccidentale dello Xinjiang, abitata per la maggior parte da etnie turcomanne Uiguri e non dagli Han cinesi che costituiscono la maggioranza schiacciante nel resto del Paese.
La regione è fonte di reclutamento per i terroristi del Califfato Islamico che partendo da questa provincia si spostano nel vicino Iran e da lì vanno a combattere in medio oriente verso la Siria oppure a sud verso Afghanistan e Pakistan.
Proprio uno Uiguro ‘cinese’ è stato ritenuto responsabile dell’attentato a Istanbul di capodanno, segno che la frontiera occidentale di Pechino non è impermeabile agli attraversamenti in entrata o in uscita dei terroristi (che comunque nello Xinjiang godono della ‘protezione’ della Cina, in quanto gli USA non hanno modo di perseguirli militarmente come invece fanno ad esempio in Afghanistan).
La soluzione messa in atto da Pechino in entrambi i casi – in Tibet e nello Xinjiang – è quella di operare una sinizzazione delle province: attraverso incentivi governativi, infrastrutture e una massiccia colonizzazione si punta infatti a ridurre le percentuali di tibetani e uiguri in favore dell’etnia Han.
Un’opera del genere però comporta, di fatto, l’annientamento culturale di chi abita quei territori da secoli.