Una giornata di ordinaria follia

Scriveva Sergio Fabbrini su Formiche di Dicembre di una vittoria a metà, quella di Joe Biden, “che avrebbe lasciato un Paese altrettanto spaccato a metà su base identitaria – due idee di America, un’America tradizionalista e bianca e un’America multi-culturale e multi-color – e lasciato il governo americano stesso, dopo la ratifica delle elezioni, nel rischio di rimanere diviso”.
Vedremo. Ma è una brutta pagina di divisione e polarizzazione sociale quella che è stata scritta ieri da una parte dei sostenitori del Presidente uscente Donald Trump, che in migliaia hanno assaltato Capitol Hill, la sede del Congresso degli Stati Uniti, alcuni di loro armati, mentre era in corso la certificazione della vittoria di Joe Biden. Rimbalzata sui media di tutto il mondo, la notizia ha suscitato reazioni di shock, per quello che è stato da subito definito come un deprecabile attacco al tempio della democrazia mondiale, un attacco che ha costretto Camera e Senato ad interrompere il processo legislativo in seguito alle proteste dei fan di Trump, mentre il Vicepresidente Mike Pence veniva scortato fuori dall’aula del Senato. Una sorta di insurrezione che si lascerà dietro 4 morti, tra cui una donna che manifestava per Trump deceduta a seguito di un colpo di arma da fuoco, 13 feriti e numerose persone in stato di fermo. L’edificio sarà dichiarato sicuro dalle forze dell’ordine – che hanno rivelato come minimo la loro inadeguatezza – solo poco prima della mezzanotte di ieri, mentre dalle 18 ora locale era stato imposto il coprifuoco nella città, misura che insieme a quella dell’emergenza pubblica la Sindaca di Washington, Muriel Bowser, ha esteso fino al 21 gennaio, con l’arrivo di ulteriori 1000 membri della Guardia Nazionale da New York a garantirle, insieme a tutto quanto possa assicurare una transizione pacifica dei poteri da un presidente all’altro.
Un’aggressione senza precedenti? Non proprio.
Tra le prime reazioni proprio quella di Biden – “la nostra democrazia è sotto un assalto e una minaccia senza precedenti” –, Biden che ha poi invitato Trump ad apparire in tv e ad esortare i suoi sostenitori a fermare l’aggressione, culminata nel frattempo nell’ingresso nel palazzo e nella sua occupazione di fatto per alcune ore, incontrando peraltro pochi ostacoli. Appello che Trump farà, per mezzo però di dichiarazioni ambigue, solo in superficie esortanti a comportamenti pacifici. Il Capitol di Washington è stato altre volte al centro di manifestazioni di protesta, ma l’irruzione dei circa tremila sostenitori di Trump ha un solo precedente, il 24 agosto 1814, quando truppe britanniche marciarono sulla capitale e diedero alle fiamme il palazzo del parlamento, la residenza presidenziale e altri monumenti come rappresaglia dopo che gli americani avevano incendiato la capitale canadese di York. L’incendio devastò in particolare l’ala del Senato, ma in quel caso le operazioni legislative proseguirono senza soluzione di continuità perché il presidente James Madison trasferì i lavori del Congresso in un vicino hotel.
Le parole contano
La notte scorsa è stato chiaro al mondo quanto alta sia la posta in gioco rivelando la fragilità delle democrazie occidentali e i rischi del populismo. “L’assalto a Capitol Hill è un giorno buio per gli Stati Uniti ed un avvertimento per le democrazia ovunque“, è stato ad esempio il commento de gruppo di Renew Europe su Twitter, come riportato dall’Ansa. Le proteste erano state incoraggiate dallo stesso Presidente uscente durante il suo comizio all’Ellipse, il parco a sud della Casa Bianca, davanti alle migliaia di persone confluite a Washington per la manifestazione “Save America” indetta contro i presunti brogli elettorali e da lui incitate con toni violenti e l’uso di termini legati alla guerra. “Non ci arrenderemo mai, non concederemo mai la vittoria” erano state le parole di apertura di Donald Trump, che si mostrava sicuro di poter “fermare il furto dei voti”, suo lo slogan “Stop the steal”. Di fatto quella di Trump messa in atto negli ultimi giorni con diverse iniziative e culminata con la sua arringa alle folle era l’intenzione di stoppare piuttosto lo stesso trasferimento pacifico del potere, vera e propria pietra angolare di ogni democrazia.
L’estremismo è sempre in agguato
Tra gli insorti a cui Trump ha dato il là figurano, accanto ai militanti più devoti, anche milizie razziste di estrema destra e fautrici del suprematismo bianco, come i Proud Boys, appellati più volte da Trump come “patrioti”, ma piuttosto invece note organizzazioni paramilitari di stampo neofascista attive in Usa e in Canada. O come i Boogaloo, anch’essi milizia armata, che auspicano una seconda guerra civile americana e lotte razziali. Accanto a loro anche i complottisti che si ispirano a QAnon, convinti dell’esistenza di trame segrete orchestrate da un presunto Deep State che agirebbero contro Donald Trump e chi lo sostiene. Compagini estremiste a lungo ai margini, riaffiorate in superficie grazie a Trump e rivelatisi però difficile da controllare per lo stesso Presidente uscente che le ha rese piuttosto tra i protagonisti di una delle pagine più drammatiche della democrazia statunitense.
Immagini inquietanti
Tutte le immagini trasmesse dai media ieri sono immagini drammatiche e ad alto valore simbolico. Da quelle della profanazione-occupazione delle aule e dei seggi, a quelle degli scontri, del sangue a terra. Alcune, grottesche, ma inquietanti. Come le maschere indossate da alcuni manifestanti: da un innocuo, in realtà, Batman completo di armatura nera rigida e mantello, a quella indossata dall’italo-americano Jake Angeli, uno dei sostenitori di Trump che ha guidato l’assalto all’interno del Congresso, probabilmente appartenente a QAnon, travestito da sciamano, tatuato, truccato, a torso nudo, in parte rivestito di pelle di bisonte e con lunghe corna. La sua foto, finita sulle copertine di tutto il mondo, è diventata l’immagine simbolo del folle assedio.
Appello alla Costituzione per una rimozione di Trump. Un’ipotesi al vaglio
E nel frattempo tra le reazioni in Usa negli ambienti politici e nella amministrazione anche quella della valutazione di una rimozione di Donald Trump, giudicato responsabile dell’assalto al Congresso, che potrebbe venire “cacciato” dalla Casa Bianca prima della scadenza naturale del suo mandato, il prossimo 20 gennaio, giorno in cui dovrà prestare giuramento il presidente eletto Joe Biden per poi insediarsi alla Casa Bianca. Lo permetterebbe il 25mo emendamento della Costituzione americana, che prevede che il vicepresidente prenda da facente funzioni i poteri del Commander in chief nei casi in cui il presidente in carica muoia, si dimetta o sia rimosso dal suo incarico per incapacità manifesta o malattia. A differenza dell’impeachment del quale si parlava in ipotesi nel corso della serata di ieri durante le fasi dell’assalto – e che è stato richiesto oggi dai repubblicani del Lincoln Project con effetto immediato per aver istigato l’assalto dei suoi sostenitori al Capitol nel quale una donna è stata uccisa e altre tre persone, una donna e due uomini, hanno perso la vita per complicanze mediche –, il 25esimo emendamento consente di rimuovere il presidente senza che sia necessario muovergli accuse precise. Basta una lettera al Congresso del vicepresidente e della maggioranza di governo in cui si sostenga che il presidente non è più in grado di esercitare i poteri e i doveri legati al suo incarico. Ove il presidente si opponesse alla sua rimozione, la decisione spetterebbe alla Camera dei Rappresentanti del Congresso che deve esprimersi con una maggioranza dei due terzi dei voti. Anche qui esistono dei precedenti: nel 1974 il vicepresidente Gerald Ford si sostituì a Richard Nixon, dimessosi perché travolto dallo scandalo Watergate; nel 1985 si fece ricorso al 25mo emendamento solo per permettere, per poche ore, al vicepresidente George H. Bush di prendere il posto di Ronald Reagan mentre veniva operato in anestesia generale; idem nel caso del vicepresidente Dick Cheney nel 2002, che si sostituì brevemente a George W. Bush sempre mentre veniva sottoposto ad operazione chirurgica. E interviene anche il board editoriale del Washington Post: “Trump una minaccia per il Paese, ha causato l’assalto al Congresso” e ne richiede la rimozione immediata giudicando pericoloso che resti in carica per altri 14 giorni, forte dei poteri della sua presidenza e potenzialmente una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. Trump, via via che le ore passano, sembra essere rimasto sempre più solo, censurato anche dai Presidenti che lo hanno preceduto, zittito dagli stessi social media che ne hanno fin qui amplificato la voce, Twitter, Facebook, Youtube e Instagram, per le sue minacce e le sue accuse sul voto. Molti abbandonano la nave, danno le proprie dimissioni. Tra i primi il consigliere per la sicurezza Robert O’Brien e il suo vice Matt Pottinger e la portavoce della First Lady, Stephanie Grisham.
Un nuovo Presidente
Mentre scriviamo, il Congresso Usa – che aveva ripreso i lavori interrotti dall’assalto al Parlamento alle 2 circa ora locale di questa mattina – ha proclamato alle 9,40 di oggi, per voce del vicepresidente Mike Pence, Joe Biden e Kamala Harris rispettivamente presidente e vicepresidente degli Stati Uniti, al termine della seduta del Congresso a camere riunite per certificare i volti del collegio elettorale vinto dal ticket dem con 306 voti contri i 232 di quello repubblicano. E dopo aver dibattuto e respinto solo due obiezioni ai voti del collegio elettorale da parte di repubblicani, in Arizona e in Pennsylvania. Riaffermando così, nel portare a termine il più velocemente possibile e nonostante l’accaduto il previsto iter legislativo dopo che la polizia – che ha mostrato gravi inefficienze – aveva rimesso in sicurezza l’edificio, la vanità di gesti inconsulti, anche clamorosi come quello dell’assalto a Capitol Hill, per ostacolare il corso dei processi della democrazia. L’America avrà un nuovo Presidente, che giurerà il 20 gennaio, e potrà, sono tra le prime parole di Biden, “voltare pagina”, sancendo per ora la fine del trumpismo e dell’idea politica ad esso sottesa dell’America first. Biden, che si è messo già al lavoro per la definizione del suo entourage, confermando oggi di aver scelto il giudice Merrick Garland, un progressista moderato, come suo ministro della Giustizia. Resta da vedere se le divisioni nel Paese e interne e il Senato, che nel sistema di governo americano vota tutte le leggi, gli permetteranno di portare avanti la nuova politica innovativa, orientata alla sostenibilità, che dovrebbe secondo lui “rimettere gli Stati Uniti a capo del tavolo” nella politica estera, economica e non solo, all’interno della più vasta comunità internazionale, dopo gli anni di isolamento attuati da Trump, come promessa in campagna elettorale.