Il caos degli aiuti umanitari a Gaza

È iniziata ieri la distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza e il caos ha dominato. Migliaia di gazawi si sono accalcati nei centri predisposti alla distribuzione di viveri. Nelle due aree messe a disposizione – Tel as-Sultan, a Rafah, nel Sud della Striscia e quella del Corridoio di Morag, che divide Rafah da Khan Yunis – sedie, tavoli e pacchi alimentari sono stati portati via. La recinzione che doveva trattenere i gazawi in attesa, completamente spostata. Colpi in aria sparati per disperdere la folla. Gli uomini della società statunitense che dovevano occuparsi della sicurezza sono fuggiti.
La crisi umanitaria a Gaza va avanti ormai da 11 settimane, da quando Israele, il 3 marzo, ha predisposto il blocco quasi totale dell’ingresso di aiuti, in particolare dopo l’inizio di una nuova offensiva militare a Rafah a fine febbraio e inizi di marzo 2024. Se prima ogni giorno circa 600 camion dell’ONU, entravano a Gaza, e venivano distribuiti in centinaia di centri, ad oggi solo pochi tir passano, e vengono presi d’assalto dalla folla affamata.
La Gaza Humanitarian Foundation
A febbraio di quest’anno è nata la Gaza Humanitarian Foundation(GHF), una fondazione registrata a Ginevra e sostenuta da Israele e Stati Uniti, con l’obiettivo di gestire il piano di aiuti umanitari. La stessa che ieri è stata duramente attaccata per il caos generato a Gaza.
Della Ghf non si sa chi siano i fondatori, non si conoscono i finanziatori. Secondo il New York Times sarebbe nata da incontri privati tra diversi funzionari, ufficiali militari e imprenditori con stretti legami con il governo israeliano. Un aspetto che aumenta la diffidenza nei confronti dell’organizzazione. L’ipotesi più accreditata, infatti, è che Tel-Aviv voglia prendere il controllo della distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, togliendolo dall’attuale soggetto che la gestisce, cioè le Nazioni Unite (ONU), e affidandolo a organizzazioni private come la Ghf.
Israele, in passato, ha già tentato di allentare il ruolo e l’influenza di agenzie internazionali come l’UNRWA, accusandola di inefficienza e di avere legami con gruppi armati palestinesi. La creazione della Ghf rappresenta un salto di qualità nella strategia del governo israeliano, con un potenziale impatto significativo sulla neutralità e sull’efficacia della distribuzione degli aiuti nella regione.
Il piano operativo della Ghf e il riconoscimento facciale
Il sistema di distribuzione degli aiuti umanitari messo in atto dalla Gaza Humantiarian Fondation si basa sul riconoscimento facciale. Vale a dire che solo i civili registrati possano accedere alle scorte alimentari. Da un lato l’obiettivo è impedire ai miliziani di Hamas di accedere a viveri da accumulare o rivendere a prezzi esorbitanti alla popolazione civile. Dall’altro, però, questa modalità potrebbe diventare una forma di controllo sociale e politica, accelerando anche il processo di sfollamento dei gazawi dal Nord al Sud della Striscia.
Gli aiuti saranno distribuiti 24 ore su 24 in quattro centri situati nel Sud della Striscia di Gaza, tra i corridoi di Netzarim e Morag, in aree controllate da Israele. Ieri la distribuzione è avvenuta in due questi centri, anche se non con gli effetti sperati.
Le dimissioni di Jane Wood
Alla luce del caos che è scaturito a Gaza ieri, il CEO della Ghf si è dimesso. Jane Wood, ex veterano dei marine e figura di riferimento nel soccorso civile — fondatore della ONG Team Rubicon — ha dichiarato: «Faccio un passo indietro. Non è possibile applicare questo piano mantenendo i principi fondamentali di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza, che non sono disposto ad abbandonare».
La sua uscita di scena assume un significato di ulteriore sfiducia nei confronti dell’intero progetto. Secondo il CEO – da febbraio a capo della Ghf – , l’efficienza tecnica del piano nasconderebbe gravi violazioni dei principi etici fondamentali. La mancanza di trasparenza e la strumentalizzazione politica degli aiuti minano fortemente i fondamenti del diritto umanitario internazionale.
E mentre la Ghf minimizza l’impatto della rinuncia — annunciando di voler comunque raggiungere oltre un milione di persone affamate entro la settimana —, le dimissioni di Wood rafforzano le accuse di chi sostiene che l’intero impianto dell’operazione sia irrimediabilmente compromesso.
Quello che accade oggi nella Striscia di Gaza dimostra quanto sia fragile il confine tra aiuto e controllo, tra assistenza e manipolazione. In un territorio martoriato, dove la sopravvivenza dipende da un sacco di farina, ogni dettaglio conta. Strumentalizzare gli aiuti umanitari significa andare contro i diritti umani.
Se da una parte il progetto promette efficienza logistica, dall’altra rimangono molteplici interrogativi: è possibile garantire neutralità e indipendenza quando un piano umanitario nasce da potenze in guerra con la popolazione che dovrebbe aiutare? E ancora: può la fame essere affrontata con metodi che rischiano di privare i civili della libertà di movimento e di scelta?