Un Figlio, occasione coraggiosa ma non sfruttata a pieno
In uscita nelle sale italiane ad aprile 2022 Un Figlio è un film diretto da Mehdi Barsaoui, primo lungometraggio del regista tunisino direttore finora esclusivamente di cortometraggi. La pellicola, frutto di una collaborazione tra Francia, Libano, Tunisia e Qatar, offre una prospettiva molto attuale su realtà del nord Africa, spesso approcciate con superficialità e limitate, da gran parte della popolazione dei paesi più sviluppati, a stereotipi nonostante la relativa vicinanza. Il film tratta appunto con molto coraggio le problematiche più critiche di queste realtà, sia quelle che affliggono maggiormente le popolazioni locali come il terrorismo, la guerra continua, la povertà, l’estremismo religioso e un duro sistema patriarcale, sia quelle che toccano anche il nostro mondo come l’orribile destino dei bambini utilizzati per il mercato di organi.
Un prodotto molto impegnato e che riserva non poche sorprese, dall’interpretazione del cast di livello altissimo, dai protagonisti ai più secondari dei personaggi, ad una regia intelligente per gran parte del film, in grado di mantenere alto l’interesse e il realismo della messa in scena pur mostrando in realtà ben poche ambientazioni e nonostante una trama abbastanza semplice. Purtroppo verso il finale l’efficacia del tutto vacilla, come se la pellicola non riuscisse a brillare fino in fondo, tuttavia rimane sicuramente un prodotto molto valido in grado di farsi notare e di smuovere riflessioni troppo spesso lasciate sopite.
Semplice ma non banale, una prima parte interessante
La trama in Un Figlio offre un supporto per consentire al film di concentrarsi sulla denuncia e la critica di aspetti anche contraddittori della società tunisina, infatti essa si rivela semplice anche se non banale. Tunisia estate 2011, in macchina di ritorno da una gita con degli amici Fares (Sami Bouajila) e Meriem (Najla Ben Abdallah) insieme a loro figlio vengono coinvolti in un’imboscata di una milizia la cui identità non viene specificata, riescono a fuggire ma il piccolo viene colpito da un proiettile al fegato e portato quindi immediatamente in ospedale; la ferita è molto grave ed è necessario effettuare un trapianto ma gli esami del sangue rivelano che Fares non è il padre biologico.
Ciò che davvero sorprende è che nonostante per una buona metà della pellicola vengano mostrati il corridoio del pronto soccorso e la coppia in attesa di aggiornamenti sulle condizioni, risultati di analisi o di novità, il film non annoia affatto in questa prima parte. Lo spettatore si trova a condividere tutte le sensazioni d’attesa eterna e le atmosfere notturne di un pronto soccorso e ad empatizzare con la disperazione dei genitori distrutti, ridotti in uno stato apatico e quasi vuoto, arrivando a compiere atti di autolesionismo, a rifiutare cibo acqua e a non curarsi di nulla, il loro intero mondo sta perdendo senso e riferimento ogni minuto che le condizioni del figlio si aggravano. Tutto questo impatto è merito della regia intelligente e della performance degli attori protagonisti, in grado di portare ad un livello di realismo e abbattimento la scena da far provare un dolore, una chiusura e un annullamento che solo un genitore potrebbe comprendere anche a chi non lo è.
Con la scoperta dell’incompatibilità biologica di Fares, e quindi del fatto che non sia lui il padre biologico del figlio, il film introduce diversi temi, dal patriarcato durissimo e assoluto ancora dilagante in luoghi come la Tunisia, alla gelosia, la possessività e il controllo della rabbia. Entrambe le posizioni sono rappresentate molto realisticamente senza dipingere né moglie né marito come vittime o santi: Meriem è molto innamorata del marito ed è evidente che prova vergogna e un lacerante senso di colpa per il suo tradimento, risalente però a tantissimi anni prima, un gesto che non c’entra nulla con la vita che ha nel presente; Fares è sicuramente ferito ed è ingiusto che un uomo così appassionato e devoto alla moglie, così attento a effettuoso nei confronti del figlio venga colpito da una simile sorpresa, ma è anche vero che nella sua rabbia quasi mette le mani addosso a Meriem e la minaccia di denunciarla (azione che viene fatto capire avrebbe delle conseguenze legali molto gravi nei confronti della moglie in Tunisia), nonostante all’inizio del film viene specificato chiaramente come sia schierato a favore dei progressisti della nazione.
Entrambi sono quindi molto innamorati, molto feriti e vittime si potrebbe dire di una sfortuna di cui nessuno sospettava niente e che nessuno dei due immaginava. Il loro essere personaggi così contraddittori, così spaccati eppure così umani è forse il riassunto migliore di ciò che il regista vuole comunicare, e cioè della situazione in cui un luogo come la Tunisia si ritrova oggi, spaccato anch’esso a metà tra una parte della politica che spinge per il progresso e fanatismo religioso, e patriarcato assoluto dove una trasgressione in una coppia può diventare se denunciata una pena severa imposta dallo stato, imposta alla donna ovviamente.
Una seconda parte più debole e un’occasione non sfruttata fino in fondo
La prima parte quindi è davvero intelligente e interessante, porta sullo schermo una serie di argomenti e tematiche intense trattate con molta lucidità, oggettività e progressismo, i problemi arrivano nella seconda metà della pellicola.
Fares viene contattato da un trafficante di organi che in cambio di denaro è pronto a fornire un fegato al figlio immediatamente che senza non sopravviverà più di due settimane; la lista in ospedale infatti è lunga essendo la donazione degli organi in Tunisia possibile ma molto rara per colpa della religione (di nuovo appunto una società bipolare, spaccata tra progresso e tradizioni retrograde). Qui di nuovo la regia si dimostra di un’intelligenza e lucidità sorprendenti, trattando con poche significative inquadrature un tema orrendo che metterebbe in difficoltà qualunque regista, il mercato degli organi. Vengono mostrate le condizioni di un numero altissimo di bambini senza nome, senza tutori, senza documenti e senza scampo pronti ad essere macellati a richiesta, una realtà crudele e bestiale che sotto i nostri occhi continua ad avvenire in tutto il mondo, ma sopratutto nelle aree del pianeta dove i paesi più sviluppati hanno inconsciamente o meno (spesso meno) provocato conflitti decennali e cambiato le sorti di intere nazioni, creando zone di guerriglia eterna, terreno fertile di simili attività.
Nonostante l’impegno della pellicola quindi rimanga deciso, i ritmi cominciano invece a presentare problemi, per troppi interi minuti ciò che effettivamente si vede è Fares che si perde nel deserto di notte e Meriem che cerca di contattare il padre biologico del figlio per un trapianto. La differenza con l’effetto prodotto dalla gestione delle tempistiche nella prima parte della pellicola è totale e purtroppo non si riprende fino alla fine del film, questo non svaluta certo l’intera pellicola, ma sicuramente pesa sulla valutazione complessiva dell’opera che fa passare lo spettatore da un coinvolgimento totale ad un’attesa interminabile e ripetitiva.
Un’ opera coraggiosa e intelligente, con pochi ma seri difetti
Nonostante i problemi con la gestione delle tempistiche nella seconda metà, il film è sicuramente un prodotto valido in grado di sorprendere non poco. Il regista ha voluto chiaramente usare la pellicola come occasione di denuncia a una serie di ingiustizie e contraddizioni gravi che caratterizzano la Tunisia, aggiungendo forse addirittura troppa carne al fuoco e curandosi non adeguatamente dello sviluppo di una trama che sembra giusto accennata e delineata, ma non approfondita. Questo però fortunatamente non oscura o svaluta il lato critico del film o l’interpretazione stupenda del cast, ma sicuramente fa lasciare la sala pensando ad un’occasione non certo sprecata, ma neanche sfruttata benissimo.