China made in Italy
Fra poco penseremo anche in cinese. Nel 1967 il film di Marco Bellocchio ci disse che la Cina era “vicina”, ora ce l’abbiamo praticamente sotto casa, anzi dentro casa.
Nell’ottobre dello scorso anno, Matteo Renzi incontrò il premier cinese Li Kequiang , per la prima volta nel nostro Paese, allo scopo di firmare un importante accordo commerciale Italia-Cina, nel quale sono stati coinvolti altri Paesi del continente europeo. Ma l’Italia si è vista aggiudicare il palmarès della privilegiata, con quasi 4 miliardi di investimenti nei settori dell’energia, delle infrastrutture e del commercio.
I cinesi ci amano, amano tutto ciò che l’Italia racconta nel mondo, dall’arte all’alimentazione. E noi siamo costretti ad amarli. Ma, al di là dei patti commerciali alla luce del sole, cosa c’è dietro questa realtà? C’è quella della crisi italiana e globale. I negozi italiani chiudono per riaprire subito il giorno dopo, perché dietro l’angolo c’è il cinese pronto a rialzare le saracinesche. Il commerciante vessato dalle tasse è costretto a cedere di fronte a un’offerta “che non si può rifiutare”: si parla di 30.000 euro di buonuscita sull’unghia, con tutta la valigetta dei contanti in regalo, alla faccia della legge sul riciclaggio del denaro sporco.
Oramai, i nostri interlocutori dello shopping facile sono loro, tanto da esserci diventati familiari. Dai cinesi trovi di tutto e sanno fare di tutto. Un orlo ai jeans o alla felpa? Te li restituiscono senza un’increspatura, cuciti a regola d’arte e per pochi euro, almeno la metà di quanto ci avrebbe fatto pagare la sartina di quartiere, praticamente scomparsa.
Supernoti per essere dei veri stakanovisti, i cinesi lavorano anche di domenica. Di poche parole ma sempre sorridenti e disponibili, pronti ad assisterti nella scelta degli articoli. Ma è acclarato che la dolce famigliola prescelta per gestire l’emporio sotto casa deve darsi da fare per il fatturato perchè in realtà viene costretta a lavorare in regime di sfruttamento. Dietro, fiorisce tutta un’organizzazione occulta, quella nota come mafia cinese.
Prendiamo ad esempio Via dell’Omo, alla periferia sud di Roma, un tempo meta per l’acquisto di mobilia senza pretese di marchio, utile per il ripostiglio o la casa di vacanza. Ebbene, le fabbrichette romane sono scomparse. Via dell’Omo è da anni dominio cinese, una teoria di capannoni dove si vende soltanto all’ingrosso, sorvegliati da gente con gli occhi a mandorla ma poco propensi al sorriso. Qui si riforniscono, con un debito tesserino, proprio quei negozietti sotto casa nostra. Se fai qualche domanda non tanto gradita, vieni costretto ad allontanarti a brutto muso.
Le statistiche riferiscono che la presenza della mafia gialla è assai radicata in Lombardia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna e Sicilia ed opera in diversi ambiti, affratellata con camorra e ‘ndrangheta nostrane : traffico di immigrazione clandestina, rifiuti tossici, contraffazione, prostituzione, gioco d’azzardo, estorsione e droga. La Procura antimafia prende le sue misure, specialmente dopo l’incendio dello stabilimento di Prato anni fa. Qualcosa sta cambiando, ci fanno sapere, ma il lavoro è improbo, perché la mafia non va in vacanza, “La mafia uccide solo d’estate” secondo il film di Pif.
E noi continueremo ad affacciarci al bar della signora Yoshiko, una simpatica chiacchierona che ci fa un sacco di feste e che solo lei prepara un delicatissimo ciambellone fatto con le sue mani da gustare col cappuccino. Tutto all’italiana, naturalmente. Lei non c’entra, lei deve ripagarsi i debiti contratti con quelli che in vacanza non ci vanno mai.
Angela Grazia Arcuri
30 giugno 2015