Siria, (co)azione a ripetere
Lo scenario in Medio Oriente e Siria è una convenienza continua per le grandi superpotenze delle due coalizioni anti-terrorismo. Un circolo dove Usa e Russia hanno motivazioni e modalità diverse nell’intervenire.
Il ruolo degli Stati Uniti nel limbo medio orientale è stato banalmente etichettato come anti-russo. Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha accusato pochi giorni fa l’aviazione russa di “non colpire soltanto obiettivi dell’Isis”. Vero, ma, ai proclami ufficiali, anche voci anonime giocano un ruolo importante in questo senso, basta leggere l’intervista del New York Times a un funzionario della Casa Bianca, che ha commentato l’interventismo russo come un “knockout yourself”, un “mettersi a tappeto da soli”.
Propaganda a parte l’America gioca d’attesa e da Washington le operazioni belliche dei russi sono in realtà apprezzate da Obama perché congeniali agli interessi americani. Il Medio Oriente ormai rappresenta per gli Stati Uniti una zona di importanza secondaria con il presidente statunitense che dal 2013 – anno in cui si arrivò alla negoziazione dei programmi nucleari con l’Iran – ha progressivamente ridotto il numero delle truppe nel corso del suo secondo mandato. Le attività militari sono state relegate in gran parte all’addestramento, insieme alle monarchie del Golfo e alla Turchia, dei ribelli moderati in una prospettiva di rovesciamento del regime di al-Assad alleato di Putin.
L’ascesa del sedicente Stato Islamico ha poi cambiato le carte in tavola portando gli Usa a rimodulare i propri piani e la Siria è tornata nuovamente in agenda. L’inefficacia nel contrastare l’Isis ha condotto Obama ad abbandonare di fatto il paese al proprio destino: il fallimentare addestramento di gruppi ribelli e i simbolici bombardamenti ne sono un indizio. Difficilmente gli Usa mostreranno i muscoli in Siria ma, salvo eventi che minino questo confacente disequilibrio, gli Usa non entreranno fisicamente nel conflitto se non con azioni di coordinamento, sempre che ci riescano. Lo strano binomio degli Usa col ‘vecchio nemico’ al-Assad si è rivelato fondamentale alle politiche statunitensi volte a mantenere l’attuale situazione nell’area siriana. Con il permanere della dinastia alauiti, la superpotenza a stelle e strisce deve soltanto occuparsi di screditare le azioni di Putin ed evitare incidenti fra l’aviazione russa e i propri alleati, in uno scenario strategico dal quale non deve emergere nessun egemone che possa attrarre nel vuoto geopolitico degli antagonisti. Gli Stati Uniti, nonostante vedano Putin “destinato a fallire” come dichiarato dal segretario della Difesa Ashton Carter, sta studiando mosse deconflittuali. È in questa visione d’insieme che l’America silenzia ma approva l’intervento militare russo in Siria cercando da un lato di non inimicarsi i paesi della Lega Araba e Israele, e dall’altro di non sporcarsi in un territorio-pantano potrebbero indebolire anche Putin.
Dall’altra parte i bombardamenti effettuati dall’aviazione russa sono stati ritenuti – anche in Italia – come azioni salvifiche e fondamentali nella “lotta al terrorismo”. Tuttavia Putin sta portando avanti una serie di mosse strategiche in prospettiva futura. Le incursioni dei caccia russi sono stati 34 nel primo giorno dall’inizio delle operazioni. “Numeri da guerra” secondo alcuni, in verità una totale apparenza sulla falsa riga americana (basta pensare che nel conflitto del Kosovo l’aviazione svolse 38mila operazioni). Insomma anche la Russia sta svolgendo un’azione di sanguinosa apparenza e i motivi sono semplici: Putin, partecipando alla guerra in difesa di al-Assad, intende rendersi essenziale in occasione di future concessioni degli Stati Uniti sull’Ucraina e nell’ex Urss, priorità del Cremlino in termini esteri. Primo capitolo di questa fase è stato il summit di lunedì scorso fra i due leader – il primo dal 2013 – svolto a Washington. Dopo un’ora trascorsa a discutere del futuro della Siria non si è tuttavia stabilito chi debba succedere ad al-Assad ne chi debba spendersi contro il califfato e , nonostante il dialogo sia ancora in fase embrionale, dovranno succedersi alcuni eventi prima che Putin possa ottenere un compromesso in medio Oriente: la posizione di Assad deve apparire rafforzata in chiave filo-russa pur rispettando quella transitorietà del leader alauita richiesta dagli americani. La campagna russa impedisce anche alla Turchia, partner ultimamente difficile per il Cremlino anche dopo le le violazioni russe nello spazio aereo turco, di realizzare una no-fly zone e di estendere la propria influenza su Damasco. A questo Ankara è preoccupata per le modalità con cui i russi entreranno nel business del Turkish Stream, l’oleodotto che Obama non vuole.
Questo scenario non modifica quindi le interpretazioni americane sulla crisi siriana ne gli obiettivi russi, anzi ne fissa i ruoli, cosa non fatta dai paesi europei che si limitano a rispettare inflazionati patti d’amicizia con gli Usa (come nel caso nostrano e britannico) o a intervenire frettolosamente (come nel caso francese). La grande coalizione contro il terrorismo è cosmesi politica: siamo di fronte al tentativo di Barack Obama e Vladimir Putin di realizzare i diversi, e non necessariamente contrastanti, interessi globali dei rispettivi paesi in territorio siriano, di fatto mero palcoscenico. D’altra parte con paesi alleati disposti a dimostrare la propria fedeltà, entrambe le superpotenze agiscono nella legittimazione di “combattere il terrorismo”, un concetto-calderone nel quale sono gettati gli obiettivi militari più diversi, dagli jihadisti ai combattenti dell’esercito Libero Siriano, dai civili al Pkk curdo.