Catalogna: la mezza vittoria degli indipendentisti catalani alle elezioni regionali
Gli indipendentisti di Mas ottengono 62 seggi su 135 grazie al 39,7% dei voti, ma non basta per governare. Crollo dei popolari del premier Roy, bloccati a 11 seggi. Sorpresa Ciudadanos al 17,9%. Orizzonti e prospettive dopo il voto di domenica (che no, non è stato un referendum separazionista).
I secessionisti di Artur Mas, leader del partito Junt Pel Sì, hanno ottenuto il 39,7% dei voti conquistando 62 seggi al Parlamento regionale, 10 gli scranni conquistati dal Cup, seconda forza pro-indipendenza con l’8,2% delle preferenze. Tuttavia, la somma dei risultati ottenuti dall’intero fronte indipendentista, è un’agrodolce 47,9% che di fatto non basta per governare. Sfiorata quindi la maggioranza assoluta, la grandiosa “vittoria della democrazia” come l’ha definita Mas, è in realtà un successo a metà, un galleggiamento politico. I voti ottenuti dalla coalizione composta da Convergencia e sinistra repubblicana – da sempre favorevole alla separazione – hanno dimostrato da un lato quanto gli stessi catalani non siano ancora sicuri delle politiche di Mas, e dall’altro come Madrid non possa più permettersi di voltare le spalle al dialogo con le forze secessioniste, soprattutto dopo la grande sconfitta di Mariano Roy fermato all’8,4% con 11 seggi conquistati. Il partito dell’attuale premier iberico è stato infatti superato sia dai socialisti del Psc col 12,8% che dall’inatteso Ciudadanas, partito unionista di centro-destra che, con il 17,9 % dei voti, diventa la seconda forza politica della regione.
Nei mesi precedenti alle elezioni regionali la chiamata alle urne è stata definita – e non solo in Spagna – come un “referendum secessionista” di importanza epocale in chiave indipendentista. Niente di più errato: le votazioni di domenica erano delle semplici elezioni regionali che, in una Spagna infuocata dal dibattito politico, hanno visto la questione sull’indipendenza catalana scavalcare ogni altro punto dei programmi elettorali. La linea dei secessionisti è stata semplicemente quella di utilizzare un mezzo legale e democratico, come le elezioni regionali, per legittimare ulteriormente le proprie politiche specie dopo il referendum illegale del 9 novembre scorso. L’esigenza di non perdere credibilità dopo un referendum, sì illegale ma pur sempre orientativo, erano forti. Così, nel gioco comunicativo del periodo elettorale, i secessionisti hanno giocoforza visto la questione dell’indipendenza prevalere come unico vero tema di campagna sfruttando l’idea di plebiscito in funzione dei propri scopi: l’esatto inverso che ha impedito ai partiti non tradizionali, come Podemos, di prevalere in un territorio vergine alle loro politiche anti-sistema.
Fallimenti e semi-vittorie a parte, nonostante i numeri non siano dalla parte dei secessionisti, Mas ha dichiarato “l’inizio del processo di indipendenza”. Un periodo post-elettorale nel quale sono previsti gli interventi volti alla formazione delle strutture istituzionale e successivamente un vero referendum per la Costituzione del nuovo – ipotetico – Stato. “Non ci arrenderemo – continua il leader di Junt Pel Sì dopo lo spoglio elettorale – e avremo l’indipendenza in 18 mesi” conclude. Se le parole di Mas si realizzassero, lo scenario sarebbe quello di uno stallo politico in cui il governo spagnolo dichiarerebbe non validi i tentativi e le dichiarazioni di indipendenza catalana, aprendo a una fase di ricorsi contro le nuove leggi. E l’Europa? L’Ue parla chiaro in materia: nel 2013 Pia Ahrenkilde Hansen, Portavoce della Commissione, dichiarò come “l’Ue è stata creata dai trattati, che si applicano agli Stati. Se una parte di territorio cessa di essere parte dello Stato, non sarebbe più parte dell’Ue: un nuovo Stato sarebbe considerato Paese terzo”. Contrario Mas che fiero dichiara come “non conviene a nessuno degli Stati membri cacciare la Catalogna dall’Unione”. Il governo spagnolo appoggia le leggi di Bruxelles. Le grandi banche intimano l’abbandono della Catalogna, insomma, questione anche di opinioni.
Il prossimo appuntamento nel mattatoio politico di Spagna a dicembre per le elezioni politiche nazionali, forse le più difficili per l’attuale establishment iberico chiamato a superare – difficilmente – se stesso. Sulla scia della voglia di cambiamento esacerbata dall’elettorato nelle elezioni degli ultimi anni, una possibile scossa porterebbe alla fine dei partiti tradizionali o perlomeno alla forte diversificazione dei protagonisti della politica spagnola; in caso di un nuovo e saldo balzo in avanti di nuove forze politiche, molti progetti potrebbero fissarsi definitivamente, fra questi – ma non solo – quelli degli indipendentisti.