Che si trattasse di salvare la proverbiale damigella in pericolo o di impersonare l’ultima, sensuale discendente delle Streghe di Umbra, non è un mistero che il mondo dei videogiochi, nel corso della sua storia ormai pluridecennale, abbia declinato il ruolo della donna in rapporto a precise logiche di fanservice, mostrando più di qualche ritrosia a darne un’immagine diversa da certi desolanti stereotipi.
Come indica lo studio Sexy, Strong, and Secondary: A Content Analysis of Female Characters in Video Games across 31 Years, la ricerca di una procace corporalità fatta di curve sinuose e abiti succinti ha per lungo tempo caratterizzato la rappresentazione del corpo femminile all’interno dell’industry. E benché il “Lara Phenomenon” innescato dal seminale Tomb Raider abbia aperto le porte ad un primo pubblico di videogiocatrici già nel 1996, anche grazie ad una buona dose di women’s empowerment, è solo negli ultimi anni che si assiste ad una minor sessualizzazione dei personaggi femminili nel panorama videoludico.
Ostaggio di un dualismo discorsivo rassicurante, il tema della raffigurazione del corpo della donna è tanto complesso quanto attuale, e nella polarizzazione che spesso genera mette in campo le implicazioni di un atteggiamento culturale pervasivo, ma anche – paradossalmente – difficile da imbrigliare: la sovrapposizione tra iconografia e ideologia. Da questo punto di vista, il videogame, in quanto medium nato in seno ad un’industria che si è prodigata per costruire una forma di mascolinità alternativa, offre un punto di osservazione privilegiato al di là del quale scorgere gli effetti e la natura di queste dinamiche sociali.
I canoni della donna virtuale
Al pari di media più influenti come la televisione pubblica, nel mondo dei videogiochi l’immagine femminile è stata codificata ad hoc per compiacere il pubblico pagante, andando a titillare le fantasie erotiche e di potere di un’utenza in origine prettamente maschile con cliché di ogni tipo. Uno di questi è senz’altro quello della donna-premio, che ha in personaggi come la Principessa Peach un’icona istituzionale.
La damsel in distress è ad un tempo obiettivo e ricompensa dell’impavido eroe, le cui gesta vengono ripagate – metaforicamente parlando – con l’accesso al piacere dato dalla sua liberazione. Nemmeno Samus Aran di Metroid si sottrae a questo ruolo; il suo gender reveal, infatti, per quanto alternativo possa esser considerato, non fa che auto-intestarsi un’accezione gratificante, con la protagonista che può arrivare a mostrarsi in bikini premiando i giocatori più celeri nel completare la campagna1.
D’altro canto, la comparsa delle prime personalità forti e determinate sovverte solo in parte questa tendenza: l’eroina – anche quando protagonista – non è mai soltanto un’eroina, ma un’eroina sexy. Frutto della necessità di identificare il corpo come luogo riservato esclusivamente allo sguardo maschile la bellezza diventa conditio sine qua non dei personaggi femminili, il cui character design ruota intorno proprio a questo assunto facendone l’oggetto di scrupolosi scrutini da parte dei giocatori.
Emblematica, in questo senso, è la cosiddetta “Namco Age Rule”, ossia quella tacita regola per cui le combattenti di Tekken e Soulcalibur dovevano sempre rimanere giovani. Benché infatti il tempo non smetta di scorrere tra un capitolo e l’altro dei suddetti franchise, volti come quelli di Nina e Anna Williams e di Ivy Valentine non ne mostrano mai i segni dell’avanzamento. La loro eterna, disinibita giovinezza viene giustificata con espedienti come la criogenesi (nel primo caso) ed il potere della Soul Edge (nel secondo), rivelando un asservimento della narrativa alle scelte di design – quando solitamente la creazione dei personaggi avviene nella maniera inversa.

Nei giochi picchiaduro può quantomeno risultare comprensibile vista la non centralità del comparto narrativo, ma è innegabile che questo meccanismo riassuma in buona parte il modus operandi di un’industria che ha prodotto personaggi come Quiet di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain. A questo proposito, lo stesso Hideo Kojima ha affermato di aver «chiesto all’Art Director Yoji Shinkawa di renderla più erotica […] per far vendere le action figure che la ritraggono», svalutando la spiegazione canonica del suo outfit succinto (ossia quella secondo cui la tiratrice avrebbe bisogno di respirare dalla pelle a causa delle sue abilità).
Fermo restando che questi sono solo alcuni degli esempi più eclatanti e che la lista di figure femminili la cui esistenza è debitrice di uno spudorato fanservice è piuttosto lunga, il riadattamento del design di Lara Croft nel tanto discusso reboot del 2013 segna quantomeno un punto di svolta, portando così l’industria a dotarsi di nuovi modelli rappresentativi. Tra questi spiccano senz’altro Ellie di The Last of Us Parte II e Aloy di Horizon (Zero Dawn e Forbidden West), che – pur nella più totale disneyana concezione della principessa guerriera – convalida il distaccamento dai canoni estetici sdoganati in precedenza.
Il videogioco come mezzo di autoaffermazione
Non che i personaggi maschili siano stati raffigurati in maniera più sfaccettata, tutt’altro. Forti e coraggiosi, di saldi principi morali e intraprendenza da vendere, i protagonisti di moltissime IP hanno tratteggiato, susseguendosi l’un l’altro, uno specifico modo di essere, un ethos a cui l’uomo “vero” dovrebbe sempre aspirare. L’asimmetria, a questo punto, appare però evidente: mentre di quest’ultimo si sono esaltate virtù che vanno oltre l’aspetto fisico, dove attributi come sensualità e bellezza si accodano ad un retaggio valoriale, per le donne – salvo rare eccezioni – la prerogativa assoluta è sempre stata quella di una bellezza innaturale quanto ostentata.
Singolare come proprio l’interdipendenza di questi due stereotipi abbia realizzato il compimento di una specifica rivalsa identitaria, offrendo una chance per dimostrare le proprie abilità a tutti quei videogiocatori squalificati dalla competizione sociale in quanto “nerd buoni solo a smanettare con il computer”. E in una società basata sui ruoli, dove la rivendicazione della propria mascolinità asseconda l’autoaffermazione, una rappresentazione così secondaria della donna – mortificante poiché inessenziale se privata di un pretesto seduttivo – non ha fatto che contribuire al medesimo scopo replicando (e legittimando) le strutture di potere che caratterizzano la vita sociale, quella fuori dallo schermo.
L’implicito scambio di significati che avviene in questo continuum si riflette anche nella natura dei vari gruppi di fan, accomunati da una sincera passione per il medium, ma esposti al contempo alla trivialità del senso di appartenenza (le community di 4chan, Reddit et similia ne sono una manifestazione plastica). Nasce in questo modo la cosiddetta “mascolinità geek” di cui parlava Anastasia Salter, descritta in Game Over, Critica della Ragion Videoludica come «la fusione tra la soggettività maschile e la tecnologia che presuppone, per il suo corretto funzionamento, il mantenimento degli stereotipi di genere circa l’abilità tecnologica maschile e l’inettitudine femminile».
Da questa prospettiva l’assimilazione dei modelli rappresentativi da parte del fandom assume più i tratti di un’appropriazione simbolica, e quando il videogioco comincia a perdere i presupposti per essere un mezzo di affermazione della propria mascolinità, ecco che allora diventa una zona contesa in cui prevalgono il parossismo di un investimento emotivo difficile da ripagare e il timore di venire espropriati di un bene esclusivo.
La fallacia della libertà artistica
A causa anche dello svuotamento allegorico subito dal videogioco, l’apertura dell’industria verso nuovi canoni estetici non ha tardato a destare sguardi risentiti tra gli utenti. Una delle polemiche più frequenti riguarda la convinzione secondo cui alla base di questo cambio di registro vi sia una riduzione della libertà artistica di molti creativi, sui quali aleggerebbe l’ombra di un qualche strapotere censorio. Posto che non è in atto alcuna forma di censura, che per definirsi tale dovrebbe essere esercitata dallo Stato, è chiaro come la resistenza ad un più generale superamento di certi costrutti sociali impedisca di mettere a nudo dinamiche in vero molto intuitive dell’intrattenimento multimediale.
L’abolizione degli stereotipi di genere potrà anche sfociare nell’ambiguità di una moda – cosa peraltro coadiuvata dall’operato della destra conservatrice, che tende incessantemente a derubricare la faccenda con l’altrettanto stereotipata narrazione sul politicamente corretto -, ma l’insorgere di coloriti, se non deliranti reclami sull’aspetto dei personaggi che si discostano da certi canoni sottende in primo luogo un equivoco di capitale importanza: l’idea che l’estro creativo sia svincolato da ogni qualsivoglia influenza.
Se così fosse, i Marines di Gears of War sarebbero stati decisamente meno muscolosi, visto che lo stesso autore – Cliff Bleszinski – ha fatto sapere in una sessione di Q&A organizzata su Twitter (risalente ormai al 2015) di aver revisionato il loro design per volere del publisher, benché il concept iniziale fosse ben diverso. Il design, infatti, è per sua stessa natura il frutto di un compromesso, e l’illusione di un passato in cui si potevano fare e dire molte più cose svanisce immediatamente se ci si sofferma sulle restanti che invece non avrebbero trovato alcuna legittimazione.
La visione artistica, d’altro canto, avviene sempre e comunque in un contesto culturalmente definito, ed è proprio questo ad informare la creazione di personaggi e storie le cui caratteristiche finiscono per esserne una sintesi involontaria ma eloquente. In questo senso, Bayonetta è – semplicemente – figlia dei suoi tempi: il suo design non è il prodotto di quella che soltanto mitizzando e glorificando il passato potrebbe apparire come una maggiore libertà artistica, ma una testimonianza dei topoi della cultura allora dominante.
Tra ideologia e iconografia
In Simulacri e Impostura Baudrillard parla di come nell’era postmoderna sia andata perdendosi la capacità di vedere in prospettiva, cioè di individuare la verità oltre ciò che la simboleggia. È lo stesso errore in cui rischia di incorrere il movimento della Body Positivity, che utilizza in maniera tautologica le immagini, e che infatti non risolve il problema dell’oggettivazione del corpo, ma ne altera semplicemente i connotati. La contropartita a chi “si accontenta di venerare Dio in filigrana” – per riprendere le parole del sociologo francese – è però spesso un’iconoclastia isterica e del tutto aprioristica, che finisce paradossalmente per investire proprio le immagini di significati impropri e di un potere che non hanno.
Le shitstorm che si sono scatenate sotto al trailer di Horizon Forbidden West ne sono una prova evidente: l’astio dei commenti rivolti al presunto rework di Aloy (che sarebbe divenuta più paffuta) non è solo ingiustificato, ma anche sproporzionato vista l’entità che un simile cambiamento avrebbe avuto nell’economia dell’esperienza ludica. Ed è proprio questo l’approccio che poi apre a tutta una serie di pericolose dietrologie sulle intenzioni del team di sviluppo, sulle ingerenze e sulle macchinazioni possibili; cose che, a ben vedere, non dovrebbero riguardare neanche il pubblico.
“Ma una donna non può più essere bella?!”, si sente dire di frequente, e per converso tutti i luoghi comuni – tutte le rappresentazioni banali e posticce – diventano il vessillo di un pensiero divergente e non sottomesso alla dittatura della maggioranza silenziosa. Il corpo femminile è ancora una volta il casus belli e vi si inscrive una lotta del tutto personale che non si affranca dal dualismo dello scontro ideologico e anzi sembra non tenere conto della dicotomia che invece si sta affermando: poiché non è la sessualizzazione in sé a costituire un problema, quanto più la sua pervasività, nell’industria di oggi si possono trovare personaggi che ne fanno un uso intelligente, archetipico e non stereotipato.
Resident Evil Village ha in Lady Alcina Dimitrescu una femme fatale squisitamente inquietante, la cui caratterizzazione estetica non lesina un briciolo di sensualità, ma non si sono viste folle di utenti infervorati per il suo design ammiccante. 2B di Nier Automata, invece, adopera la sessualizzazione in maniera alternativa fino a decostruirla; ne diventa un’allegoria – l’automa in quanto oggetto che diviene soggetto pur nella sua nudità.
Solo parlando delle immagini per quello che sono, a partire cioè dal valore iconografico di cui dispongono e per mezzo del quale veicolano una pluralità di sentimenti e idee, si può intendere il videogioco come opportunità di discussione anziché di affermazione. Allora, forse, si arriverà a comprendere che è anche grazie alla presenza di Aloy se ci può essere un’altra Bayonetta.
- Per approfondire vedasi l’articolo “Donne nei videogiochi: le più importanti figure femminili dell’industria” di Giulia Martino. ↩︎