Venerdì 14 ottobre: due giovani ragazze in visita alla National Gallery di Londra imbrattano con una zuppa di pomodori il celeberrimo dipinto “I Girasoli” di Vincent Van Gogh; vi si inginocchiano di fronte, incollano le mani alla parete e – in quel breve lasso di tempo che precede l’arrivo della sicurezza – rivolgono alla folla incredula l’icastico dilemma “Per voi l’arte vale più della vita?”.
Sono militanti dell’associazione ambientalista Just Stop Oil (come recita la scritta nera sulle loro t-shirt), un gruppo di attivisti nato nel febbraio dell’anno corrente con lo scopo di sensibilizzare le persone sul tema del cambiamento climatico promuovendo l’utilizzo di fonti rinnovabili, le cui attività pare si siano intensificate a ridosso dell’elezione di Liz Truss come leader del Partito Conservatore britannico.
Non si tratta di un evento privo di precedenti: già responsabile dell’interruzione dei BAFTA nel mese di marzo, il collettivo green ha colpito anche “Il carro da fieno” di John Constable – conservato sempre alla National Gallery – con un modus operandi analogo, senza tuttavia ricorrere al lancio di generi alimentari sul quadro. Mentre note, e decisamente più problematiche, sono le iniziative volte a bloccare il traffico, come quelle che si registrano sovente a Westminster, e che sono costate l’arresto a diversi manifestanti.
L’attivismo nella società mediatizzata
Estremo e destabilizzante, il gesto delle due poco più che ventenni militanti ha da subito raggiuntouna capillare diffusione tra le maglie del web e sulle principali testate internazionali, arrivando a erodere anche il dibattito pubblico nostrano. La condanna – alle volte più che scomposta – è grosso modo unanime: per quanto la battaglia al cambiamento climatico sia di primaria importanza, quanto fatto ai Girasoli di Van Gogh non solo è sbagliato, ma persino insensato – folle, sciocco.
Varrebbe la pena di soffermarsi su un aspetto che, curiosamente, è stato tralasciato in più di un’occasione: salvo danni minori alla cornice, l’opera di Van Gogh è rimasta intatta grazie al vetro protettivo che la custodiva. E a giudicare dal grado di preparazione delle due attiviste – che, al netto della tensione ravvisabile nei loro movimenti, hanno dimostrato una freddezza esecutiva non da poco – sarebbe difficile ipotizzare che in fase di pianificazione non sia stata considerata la presenza del suddetto pannello.
Statement from the National Gallery pic.twitter.com/DuZhTbAvbH
— National Gallery (@NationalGallery) October 14, 2022
Ma questa potrebbe suonare come una giustificazione e rischierebbe oltretutto di sviare da una riflessione, in vero più urgente, sull’effetto perverso generato dal rimpallo mediatico della notizia. Sembra infatti che delle tante parole spese in merito, tra la ritrosia della sinistra non radicale e il tronfio rimprovero delle destre, ben poco si sia fatto per affrancarsi dal dualismo di un misero posizionamento morale. Anzi le accuse mosse vanno accodandosi ad un leitmotiv sempre più presente nello spettro della narrazione politica: quello dell’estremismo della “nuova sinistra”, che permea il confronto su buona parte dei temi d’attualità.
L’impressione è che, uscendo dal recinto – certamente più rassicurante – dello slacktivism con il suo virulento atto di protesta, l’attivismo venga visto come una strana chimera di fronte alla quale si è a tal punto impreparati da volerla rispedire subito nei territori più familiari dell’infosfera. Ci si chiede, dunque, se sia questo il modo giusto di fare attivismo, ma tanto più quando doverosa, la condanna – proprio perché a buon mercato – rischia di diventare una scorciatoia. E se si arriva a discutere su cosa valga di più tra l’arte e la vita, significa che è già stato oltrepassato un importante confine.
È ciò cui alludeva Jean Baudrillard in Simulacri e Impostura (Milano, PGreco, 2008), libro che – pur con tutte le sue aporie disfattiste – metteva in guardia proprio dalla potenza dei simulacri da ben prima l’avvenuto del web 2.0. Se, per ammansire quella bestia esotica, la si spoglia del suo referente, allora l’allegoria – e con essa l’istanza di cui si fa voce – è diffratta, ostaggio di un dibattito senza capo né coda. Si parla quindi del gesto e non di quello che rappresenta, con l’ovvia, ma non per questo meno paradossale conseguenza di rimproverare agli attivisti di essere per l’appunto attivisti.
Si può ancora parlare di liberalismo?
Una visione più pragmatica vorrebbe che si cercasse di tracciare un confine tra i due aspetti della vicenda: da una parte l’atto in quanto tale, con la sua più che legittima condanna, dall’altra la volontà di dibattere sul messaggio che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto veicolare. Ma quest’ultimo tentativo – che altro non rimanda se non al caro e vecchio liberalismo arendtiano – sembra essere adombrato dall’avanzata, sempre più estesa, dei populismi, a loro volta riflesso di un problema di comunicazione generalizzato.
In Filosofia del Digitale (a cura di Luca Taddio e Gabriele Giacomini, Milano-Udine, Mimesis, 2020), Simona Morini fa notare come, nell’era dei social media
assistiamo […] alla frammentazione dell’informazione (dovuta all’aumento esponenziale delle fonti disponibili), al dilagare delle fake news, alla polarizzazione dell’opinione pubblica (reti omofile, echo chambers, filter bubbles) che di fatto rende quasi impossibile il dialogo e il confronto su idee diverse che sono alla base del formarsi delle opinioni in un sistema democratico.
Al momento – come conclude anche Morini – viene difficile stabilire se le nuove tecnologie di comunicazione contribuiranno alla crisi in cui versano la politica e la democrazia. Ma risulta più che mai evidente come, a fronte dell’ulteriore segmentazione dell’opinione pubblica, il liberalismo debba essere ripensato affinché riesca a cogliere non solo la moltitudine di sfumature ideologiche che vanno irradiandosi nel tessuto sociale, ma anche la loro ripartizione in compartimenti stagni.
Del resto, intestare l’attacco di Just Stop Oil semplicemente ad una causa progressista, etichetta – quest’ultima – tanto inflazionata quanto vaga, e pretendere che sia espressione di una forza politica uniforme, dai tratti ben definiti, denuncia l’inadeguatezza di un certo approccio teorico nei confronti di una realtà che è più complessa di quanto si voglia far credere. Le grandi ideologie sono oggi messe in discussione dai meccanismi di profilazione e personalizzazione che stanno alla base delle piattaforme ospitanti il dibattito pubblico, motivo per il quale le categorie d’analisi della società novecentesca risultano irrimediabilmente inefficaci.
Insomma, forse i Girasoli di Van Gogh non raccontano solamente la storia di due attiviste e della loro protesta scellerata, e men che meno quella del cambiamento climatico. Raccontano la storia di tutti gli altri, del rumore che c’è intorno e della necessità di trovare un modo per attraversarlo senza farsi travolgere. Di trovare cioè un modo per convivere con il pluralismo che – per merito o colpa che sia – la rivoluzione digitale ha liberato in tutta la sua sconcertante potenza.