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Nel 2050 faremo i conti con 200 milioni di migranti climatici

Si chiama Medicane, dall’unione delle parole inglesi “mediterranean” e “hurricane” (uragano). È il nubifragio che ha devastato la Sicilia, in particolar modo la città di Catania. È la prima volta che un uragano di categoria 1, che può sfiorare i 119 chilometri orari, si abbatte sulle zone del Mediterraneo. Questo fenomeno si va ad aggiungere ai tanti che ogni anno colpiscono varie zone del mondo: la maggior parte sono diretta conseguenza del cambiamento climatico.

Tutto ciò è già evidente, ad esempio, dalle cause che hanno portato alla nascita del Medicane. Un uragano del genere viene solitamente alimentato grazie agli oceani. In zone extra tropicali come quella italiana, dai gradienti di temperatura dell’atmosfera. L’innalzamento della temperatura terrestre sta raggiungendo quindi livelli critici che stanno portando alla trasformazione di interi habitat e a fenomeni quali l’innalzamento dei mari o la desertificazione.

Catania

Negli ultimi giorni, la notizia del disastro climatico in Sicilia era rimasta centrale nell’opinione pubblica, fino a passare in secondo piano con il G20 che si è svolto a Roma, seguito dalla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Glasgow (Cop26). La crisi climatica è stato l’argomento più discusso in entrambi gli eventi. Una crisi che al momento non sembra aver ricevuto ancora risposte concrete. La distruzione degli habitat in seguito a questi fenomeni metereologici, hanno poi portato ad ulteriori conseguenze: le cosiddette migrazioni climatiche sono tra queste.

i capi di stato e di governo a Roma, davanti la Fontana di Trevi

Cosa sono le migrazioni climatiche?

I flussi migratori non sono un argomento nuovo di questo e dei secoli passati. Molto spesso sono associati alla fuga da zone di guerra come la Siria o l’Afghanistan ma non sono gli unici. Tra le cause delle migrazioni, infatti, ci sono anche i cambiamenti climatici.

Nel 2018, lo status di migrante climatico viene trattato, per la prima volta a livello intergovernativo, nel Global Compact for Migration, un documento firmato in Marocco dai paesi delle Nazioni Unite. Nel patto migratorio, si prevede il riconoscimento di eventi estremi quali siccità, desertificazione e innalzamento del mare, tra i motivi che costringono le persone a lasciare le proprie case. Questo è stato un passaggio sicuramente importante ma non sufficiente. Ad oggi, infatti, il grande fenomeno delle migrazioni climatiche non ha ancora l’attenzione e il riconoscimento che meriterebbe.

Secondo i dati dell’Internal displacement monitoring centre (Idmc), sui 40,5 milioni di sfollamenti che ci sono stati nel 2020, solo 9,8 milioni sono dovuti a conflitti armati mentre i restanti 30,7 milioni sono dovuti a disastri naturali, tra cui 30 milioni solo per fenomeni come uragani, incendi e alluvioni e 655mila per fenomeni geofisici come terremoti ed eruzioni vulcaniche. L’anno scorso quindi, queste cifre hanno rappresentato il 98% di tutti gli sfollamenti registrati. Tra le aree colpite, zone ad alta densità abitativa come il Bangladesh, le Filippine e la Cina.

Non sempre però gli sfollamenti si riversano su altri stati, ma spesso si tratta di spostamenti all’interno del medesimo territorio che attualmente si aggirano intorno ai 23,9 milioni dovuti al cambiamento del clima. Questi flussi comportano poi un costo rilevante che affligge l’economia del singolo paese: un anno di sfollamento raggiunge la cifra di 20,5 miliardi di dollari. Il cambiamento climatico poi rende molte di queste aree inabitabili.

Sfollati interni in Mozambico

Uno sguardo al futuro

Ma il dato più allarmante è quello che guarda al futuro: per il 2050 si prevede un raggiungimento di 200 milioni di migranti climatici, di cui 86 milioni solo provenienti dall’Africa Subsahariana. Cifre alte ma ancora incerte. Ad oggi è ancora impossibile, infatti, fare una stima esatta del fenomeno. La mancata definizione della figura del migrante climatico, a livello istituzionale e l’avvio di politiche nazionaliste e anti-migratorie, ha impedito la formazione di ricerche più approfondite. Nella maggior parte dei casi, inoltre, si preferisce definire un migrante come alla ricerca di un lavoro o di una vita migliore più che come in fuga da habitat divenuti invivibili. Già nel 2015 era stata richiesta l’istituzione di un comitato speciale, da parte degli stati firmatari dell’Accordo di Parigi, per contrastare questo fenomeno. Ma sia questo che altre azioni che si sono susseguite negli anni non sono risultate efficaci né hanno raggiunto uno sviluppo sufficiente, tale da renderle all’altezza di contrastare un fenomeno imponente come questo.

Intanto, negli ultimi giorni, ha fatto il giro del web una foto che ritrae i leader più potenti del mondo in una delle tante città allagate dai nubifragi. Il fotomontaggio, pubblicato dal gruppo socialista e democratico del parlamento europeo, chiede alle varie potenze di “agire ora o mai più”:

«Il cambiamento climatico è un’emergenza e deve essere riconosciuta e affrontata…ha mostrato i suoi effetti disastrosi, soprattutto nei paesi più vulnerabili. A Glasgow ci aspettiamo che vengano concordate e intraprese azioni concrete. Non spetta ai più vulnerabili pagare il prezzo dei più ricchi che inquinano. Ora ai leader mondiali diciamo: basta con i bla bla bla. È ora di agire.»

socialists and democrats (via Instagram)
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