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Mino Maccari: l’uomo che disegnava la verità con una risata amara

Nato a Siena nel 1898, in una famiglia borghese, Maccari sembrava destinato a una vita ordinata. Laurea in giurisprudenza, buone maniere, professione rispettabile. Ma dentro di lui c’era una ribellione che non si poteva addomesticare. Dopo la Prima guerra mondiale, che lo segnò come tanti giovani della sua generazione, capì che la toga gli stava stretta. Troppo formale, troppo ingessata. Lui aveva bisogno di sporcare le mani, e soprattutto la carta.

Il suo sguardo sul mondo era spietato, ma non cattivo. Aveva la leggerezza di chi ride di tutto, ma la profondità di chi ha guardato l’abisso da vicino. La sua satira non era mai banale: era un coltello avvolto in una risata. Sorridevi davanti a una sua caricatura, e solo dopo ti accorgevi che ti aveva appena tagliato l’anima.

Nel 1924 fondò Il Selvaggio, una rivista che, nel nome stesso, già raccontava tutto. Selvaggia era la sua visione del mondo, incontaminata dalle mode e dalle ideologie dominanti. All’inizio flirtava con il fascismo, come tanti intellettuali del tempo. Ma il suo fascismo era più un’utopia rurale e anarcoide, fatta di uomini sinceri, facce scavate, vino rosso e terra sotto le unghie.

Maccari non era un ideologo. Era un uomo che pensava con la pancia, con le mani, con gli occhi. E disegnava il potere per quello che era: ridicolo, goffo, vanitoso. I suoi politici sembrano maschere di commedia, con nasi enormi, occhi furbi o bovini, e sempre quell’aria di chi cerca di imbrogliare qualcuno, o se stesso.

Ma Maccari non era solo un disegnatore di satira. Era anche un pittore viscerale. I suoi quadri sono un pugno nello stomaco, a volte uno schiaffo, altre volte un abbraccio un po’ sporco. Le sue figure sono nude, storte, umanissime. Donne sensuali e impietose, uomini grotteschi ma veri. Non cercava la bellezza, cercava la carne, l’odore, la verità. E se la verità era scomoda, tanto meglio.

Non seguì mai una moda artistica. Non gli interessava piacere. Amava Goya, ammirava Grosz, ma il suo segno era solo suo. Un segno che tremava, graffiava, colpiva.

Nei suoi scritti emergeva un’intelligenza lucida e sarcastica, ma anche una malinconia sottile, quasi nascosta. Maccari sapeva che ridere del mondo era l’unico modo per non esserne schiacciati. “Un anarchico conservatore”, si definiva, ridendo. Paradossale? Sì. Come lo è ogni uomo sincero. Voleva distruggere le ipocrisie, ma non la memoria. Voleva cambiare il presente, ma non tradire le radici.

Non era un uomo accomodante. Non faceva sconti a nessuno, nemmeno agli amici. Aveva un carattere spigoloso, un umorismo tagliente, e non sopportava le pose. Ma chi lo conosceva bene parlava di un uomo generoso, curioso, intensamente vivo. Gli piacevano le chiacchiere tra pochi, i bicchieri di vino sincero, le donne libere, la campagna vera. Amava la libertà più di ogni altra cosa, anche a costo della solitudine.

Fino all’ultimo giorno continuò a disegnare, scrivere, osservare. Morì a Roma nel 1989, lasciando un’eredità difficile da incasellare: centinaia di disegni, dipinti, scritti, pensieri appuntati. Ma soprattutto, lasciò un modo diverso di guardare l’Italia: senza illusioni, ma con affetto. Con ironia, ma anche con un fondo di speranza. La speranza che, dietro il grottesco, ci fosse ancora qualcosa di autentico da salvare.

Oggi Mino Maccari è meno noto di quanto meriterebbe. Forse perché non si è mai fatto bandiera di nulla. Non ha mai chiesto di essere compreso. Ha solo chiesto di essere letto, guardato, ascoltato. E oggi, più che mai, il suo sguardo libero e disincantato ci serve. Perché ci ricorda che ridere è un atto serio. Che l’arte può dire la verità senza sermoni. Che l’uomo, anche quando è ridicolo, resta degno di essere raccontato.

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