Crocus City Hall, Mosca. Nella notte di venerdì, mentre diverse migliaia di persone erano radunate all’interno dell’imponente sala per concerti, si è consumato un massacro. Tra i palchi e le poltrone del centro culturale e artistico, in breve, le magnifiche melodie delle orchestre hanno lasciato il posto al caratteristico suono degli spari dei fucili d’assalto, con un risultato finale di 135 vittime e almeno 150 feriti. A condurre l’azione, da quanto visibile dalle numerose prove video disponibili, sono stati almeno quattro uomini armati di fucili d’assalto ed equipaggiati con abbigliamento militare, che hanno poi proseguito la propria opera impiegando alcuni coltelli ed altri strumenti incendiari. Di conseguenza, oltre al massacro di civili, vi è stata poi la distruzione parziale del centro, dove è divampato un pesante incendio che ha richiesto un duro lavoro di soppressione.
Nonostante inizialmente si sapesse ben poco sulle ragioni che hanno portato gli attentatori a colpire, ben presto l’azione è stata rivendicata dai canali dello Stato Islamico – Provincia del Khorasan, anche tramite la diffusione di alcuni video registrati proprio dagli stessi autori del massacro. Fatto che, per quanto possa risultare isolato, riporta facilmente alla mente i precedenti attacchi del Bataclan, di Beslan e la crisi degli ostaggi del teatro di Mosca, avvenuta nel corso del 2002. Non è la prima volta, infatti, che la Federazione Russa si trova al cospetto di azione mirate e ben pianificate condotte da gruppi armati e ben organizzati, capaci di portare morte e terrore fino al centro del cuore politico ed economico russo.
A differenza di quanto avvenuto a Beslan e a Mosca nei primi anni Duemila, però, in questo caso l’attacco è stato condotto in maniera differente. Per prima cosa, infatti, si è trattato di un blitz condotto da un numero ridotto di uomini equipaggiati con armi e strumenti incendiari capaci di provocare danni importanti all’interno dell’edificio. Poi, non vi è stata alcuna presa di ostaggi, ma solamente un’azione armata focalizzata al provocare il maggior numero di vittime possibili prima che vi fosse una effettiva reazione da parte delle forze di sicurezza locali. Per ultimo, ma non di minore importanza, vi è il fatto che gli attentatori – che questa volta hanno agito anche in cambio di un ridotto compenso economico – abbiano pianificato la propria fuga, senza cercare invece il martirio nel corso dell’azione.
Si tratta di elementi molto particolari, che rappresentano, però, una costante degli attentati degli ultimi anni, dove un gruppo cospicuo di uomini risulta capace di infliggere un alto numero di perdite umane – in genere colpendo civili disarmati e impossibilitati a difendersi – prima che vi sia un efficace intervento da parte della polizia o delle unità dell’antiterrorismo. Tuttavia, dopo quasi due giorni di ricerche e inseguimenti, alcuni degli uomini sospettati di aver avuto un ruolo ella strage sono stati catturati da parte delle autorità russe, per un totale di 11 arresti avvenuti in correlazione all’attacco di venerdì notte.
In seguito all’accaduto, sono state innumerevoli le condanne e le dichiarazioni provenienti dalle massime autorità della Federazione e da parte di innumerevoli figure politiche e istituzionali estere. Oltre ai messaggi di solidarietà e condanna, però, vi sono state anche prese di posizione più nette, con possibili e imprevedibili risvolti sul piano internazionale. Le autorità russe, infatti, hanno dichiarato pubblicamente che una parte degli uomini arrestati per l’attentato stavano fuggendo verso il confine ucraino, dove – a detta di Mosca – vi sarebbero stati dei contatti incaricati di agevolarne la fuga all’estero.
Si tratta, dunque, di un ulteriore tassello della sempre più grave escalation militare attualmente in corso in est Europa, che potrebbe presto portare la Federazione ad aumentare la pressione militare lungo le linee del fronte e all’interno degli oblast posizionati sulla sponda occidentale del Dniepr, attualmente ancora in parte risparmiati dalle distruzioni del conflitto.
Al di là di queste accuse, però, ciò che è destinato a fare la differenza è il rischio di una possibile nuova ondata di attacchi islamisti all’interno del territorio della Federazione Russa, che da numerosi decenni è impantanata in un frequente susseguirsi di operazioni antiterrorismo e di controguerriglia nella regione del Caucaso e in altre aree a prevalenza musulmana. Con la sconfitta dello Stato Islamico nei territori mediorientali, inoltre, vi è stato sì un collasso dell’organizzazione principale, ma non la definitiva scomparsa della minaccia jihadista.
Altre organizzazioni – che almeno per affiliazione formale e ideologica si identificano come membri dello stato dalle bandiere nere – sono riuscite a crescere e radicarsi in altri territori, dando così vita a nuove province in Afghanistan, Yemen, Africa Subsahariana e perfino all’interno del Sud-est Asiatico. E ancora oggi, sebbene l’attenzione generale sia focalizzata sul conflitto ucraino, questi attacchi servono a ricordare di quanto il pericolo sia ancora reale e ben presente all’interno di innumerevoli nazioni e continenti.