A volte i numeri non bastano a raccontare la realtà, ma questa volta la inseguono da vicino: 805 droni (e decoy) e 13 missili lanciati nella notte contro l’Ucraina. È l’attacco aereo più massiccio dall’inizio dell’invasione, dicono Kyiv e più agenzie internazionali. A Kyiv i detriti hanno innescato incendi in vari quartieri; per la prima volta è stata danneggiata la sede del governo, con tetto e piani alti colpiti, come ha confermato la premier ucraina Yulia Svyrydenko. Tra le vittime, una madre e il suo bimbo di pochi mesi; i feriti si contano a decine. È la fotografia cruda di una guerra che, a dispetto delle agende diplomatiche, continua a parlare con le esplosioni.
Secondo l’Aeronautica ucraina, le difese hanno intercettato la gran parte dei vettori: oltre 740 droni e 4 missili abbattuti. Ma 56 droni e 9 missili avrebbero comunque centrato 37 obiettivi in più città (Odesa, Kharkiv, Dnipro, Zaporizhzhia, Kryvyj Rih). Bilancio provvisorio e ballerino – com’è inevitabile nelle prime ore – ma univoco nella sostanza: l’impatto è pesante e la soglia simbolica del palazzo governativo colpito sposta il baricentro psicologico del conflitto.
Il pezzo di cronaca lo ha messo per primo sul tavolo l’articolo di Adnkronos, notando l’ampiezza geografica dei bersagli e citando fonti locali (tra cui il Kyiv Independent) per gli attacchi a Odesa e nella regione di Zaporizhzhia. Sulle stesse linee si collocano AP e Reuters: la prima parla apertamente del “più grande assalto aereo della guerra” e rilancia le frasi della premier Svyrydenko (“per la prima volta l’edificio del governo è stato danneggiato”), la seconda documenta con foto e sommari il fuoco su condomini e la contabilità minima delle vittime e dei feriti a Kyiv. Al Jazeera e The Guardian confermano il quadro: edifici residenziali in fiamme, governo colpito, appelli a reagire con sanzioni più dure su petrolio e gas russi.
Sul fronte politico-diplomatico, da Kyiv arriva un refrain che ormai conosciamo: “non bastano parole, servono azioni”, con la richiesta – questa volta molto esplicita – di inasprire le sanzioni energetiche e rafforzare la difesa aerea. Il messaggio è indirizzato ai partner occidentali, anche perché la tempistica dell’attacco cade mentre sui tavoli internazionali si moltiplicano ipotesi di cessate il fuoco e di “pace di comodo”. La realtà dei fatti, però, resta testarda: i missili non leggono i comunicati.
Il quadro operativo presenta due elementi che meritano una lente in più. Primo: la saturazione delle difese ucraine mediante l’uso combinato di droni “esca” e munizioni a basso costo, una tattica che Mosca ha già sperimentato ma che qui aumenta di scala. Secondo: l’effetto dimostrativo del colpire (anche parzialmente) un simbolo statale nel cuore della capitale. Il messaggio, più che militare, è politico: se l’Ucraina può proteggere i cieli, dimostri di saperlo fare anche sulle sue istituzioni. Non a caso, diverse testate parlano di svolta nella campagna aerea russa.
C’è poi un filo laterale da non trascurare: la centrale nucleare di Zaporizhzhia. Alla vigilia, la gestione filorussa dell’impianto ha denunciato danni al tetto del centro di formazione a seguito di droni ucraini, senza conseguenze radiologiche e lontano dai reattori. Cronaca che non cambia il rischio sistemico, ma che segnala come attorno all’impianto ogni scambio di colpi abbia una risonanza strategica e propagandistica enorme.
Intanto, gli osservatori indipendenti ricordano che l’andamento del fronte terrestre non offre spiragli clamorosi: avanzate graduali, logoramento di artiglierie e scorte, guerra di drone contro drone. In questo scenario, attacchi aerei record assolvono due funzioni: spremere la difesa antiaerea ucraina (costosa e dipendente dall’estero) e imporre all’opinione pubblica un’agenda della paura nelle città. Non è un caso che il “picco” cada a ridosso di nuove pressioni per negoziati: più alto è il prezzo civile, più forte il messaggio politico.
La lettura occidentale oscilla tra il condizionamento militare (accelerare invii di sistemi anti-drone e munizionamento) e l’opzione sanzionatoria (tornare a colpire le rendite energetiche russe). Su entrambi i binari il margine di manovra non è infinito: la difesa aerea è la voce più costosa dell’assistenza a Kyiv; il capitolo petrolio/gas tocca filiere, prezzi e politica interna europea. Ma le immagini del fumo dal tetto del governo a Kyiv rimettono il tema in cima alle priorità.
Dal lato russo, l’operazione offre a Putin due dividendi: interno (dimostrare forza nonostante sanzioni e perdite) ed esterno (segnalare che Mosca può alzare la posta mentre sul versante diplomatico si cerca una via d’uscita). Le cronache di giornata – da AP a Reuters – convergono su un punto: il record numerico non è un incidente statistico ma una scelta di campagna. Se proseguirà, misurerà la resilienza ucraina e la pazienza degli alleati.
Resta, infine, la dimensione umana, che non è un “corredo” narrativo ma il centro del fatto. Gli appartamenti in fiamme, i soccorsi tra macerie e vetri, i bambini portati giù per le scale mentre le sirene continuano: sono le stesse sequenze che vediamo da due anni e mezzo, ma con un grado in più di normalizzazione. È il pericolo peggiore: abituarsi. Per evitarlo servono due cose che spesso si escludono: freddezza analitica (capire la logica dello scontro) e intolleranza morale (rifiutare l’idea che colpire civili sia “parte del gioco”). Il colpo al palazzo del governo non cambia l’esito della guerra, ma riallinea la percezione: il centro del potere non è intoccabile, e la capitale resta bersaglio.
Traduzione politica del 7 settembre: l’aerocampagna russa spinge al limite la difesa ucraina, la diplomazia inciampa sulla cronaca e gli alleati devono decidere se investire ancora di più sulla protezione dei cieli e sul costo energetico per Mosca. Tutto il resto – bozze di pace, calendario di vertici, formule creative – resta nelle note a margine finché i tetti della capitale fumano.