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Turchia: il silenzio è finito, è ora del dissenso

Esiste forse un’ipotesi ulteriore a quella democratica in cui il popolo ha un ruolo principale e come tale, i giochi, senza di esso non iniziano? Oppure è possibile che il demos non sia più il solo contrappeso all’ordine interno di un Paese? La verità è che la dittatura è una connivenza tra dittatore e popolo. Nessun autoritarismo si è mai istaurato solo perché la crisi economica dilagava o perché la corruzione prendeva piede. Sono condizioni che possono preparare il terreno, certo, ma non bastano mai da sole all’istaurarsi di un regime. Ci vuole un popolo che, non per amore, ma per paura di essere lasciato solo, un po’ per egoismo di patria, sposi la tirannia. Ed è tutto lì, quando il dittatore diventa una figura preziosa a protezione della sorte nazionale, un baluardo a difesa del debole popolo smarrito. Ma quando il popolo non collabora al suo autore e la complicità collettiva e la legittimazione del potere vengono meno, cosa resta al regime per potersi imporre?

La convalida dell’arresto

Le rivoluzioni vengono dal basso e in questo la storia insegna. Eppure quello che sta accadendo in Turchia risveglia un senso di fierezza nazionale senza precedenti. Ekrem Imamoglu, sindaco di Instabul ed esponente del Partito popolare repubblicano(CHP), è stato arrestato mercoledì scorso per corruzione e terrorismo. In particolare è accusato di avere legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), un’organizzazione considerata terrorista dal governo turco.

È stato aperto un procedimento a suo carico, probabilmente per impedirgli di partecipare alle elezioni presidenziali del 2028. Un’inchiesta che proprio ieri ha dato i suoi frutti: dal tribunale è arrivata la convalida dell’arresto e la conferma dell’accusa per corruzione, ma non di terrorismo. 

Imamoglu era già stato coinvolto in procedimenti giudiziari e altre indagini che tuttavia non avevano mai inficiato la sua carriera negli uffici pubblici. L’arresto non è comunque un ostacolo affinché il leader laico si candidi alle presidenziali o venga eletto, ma le cose, ora, si complicano.

I precedenti tentativi di Erdogan

Non è la prima volta che Erdogan tenta di impossessarsi di un nuovo mandato. Da 22 anni al potere, probabilmente ora è intenzionato a infrangere il limite di tre mandati imposto dalla legge, modificando il testo costituzionale oppure anticipando il voto al 2026, prima che il suo mandato si concluda.

E, fino a qualche giorno fa, c’era riuscito: dopo aver invalidato il titolo di laurea del sindaco di Instabul, principale avversario politico, Recep Tayyip Erdogan ha proseguito muovendo i fili affinché avvenisse il suo arresto. D’altronde la “pericolosità” del suo nemico alla presidenza si misura sia nella carica che ricopre (è sindaco, un trampolino di lancio politico), sia nel fatto che due terzi della popolazione lo appoggiano. 

Le proteste in tutto il Paese

Cinque giorni di protesta si sono susseguiti da mercoledì 19 marzo e sicuramente continueranno ora che la detenzione del leader laico è stata confermata. In 55 province delle 88 che compongono la Turchia, milioni di cittadini sono scesi per le strade, nei campus universitari e nelle stazioni della metropolitana a professare il loro malcontento.

Si sono verificati diversi scontri con la polizia che hanno portato all’arresto di circa 700 persone. Anche la moglie di Imamoglu ha partecipato alle proteste, esortando i manifestanti ad alzare la voce. Nel frattempo il governatore di Istanbul ha imposto quattro giorni di restrizioni.

“Erdogan, dittatore” e “Imamoglu, non sei solo”: questi sono solo alcuni degli slogan che riecheggiano tra le strade di tutto il Paese. L’opposizione continua a lottare e il supporto si è fatto sentire specialmente domenica, giorno delle primarie del partito di centrosinistra e nazionalista di Imamoglu il CHP, necessarie a scegliere il candidato alle presidenziali del 2028. Nonostante Imamoglu fosse l’unico candidato, la votazione è stata comunque molto partecipata anche da non iscritti al CHP come simbolo di sostegno al leader. Addirittura, dei 15 milioni di partecipanti al voto, solo 1,6 erano iscritti al partito.

È la fine dell’Erdogan-era?

Erdogan ci riprova, ma la dittatura non basta a sé stessa. Serve il consenso e se non c’è bisogna crearlo. In Turchia i giorni del silenzio sono finiti e il regime perciò scricchiola. Perché chi ha potere vince, a dirlo sono i fatti, non le parole. In questa partita mondiale in cui “le carte le ha l’America” come ha recentemente parlato il presidente statunitense, Donald Trump, tra l’altro grande ammiratore di Recypp, bisogna stare dal lato “giusto”.

Erdogan deve fare i conti con un consenso popolare nettamente diminuito, ma dalla sua ha sicuramente un’arma ancora più importante. Era successo già con Assad che si è andato rivolgendo al presidente russo Vladimir Putin per ottenere protezione(connivenza sarebbe meglio) mentre contemplava il da farsi nel suo Paese. Perché i leader di oggi godono di uno strumento nuovo: il benestare dei propri “pari”.

Trump non ama chi perde (motivo per cui non ha così tanta ammirazione per Zelensky), ma sicuramente apprezza Erdogan o Netanyahu, perché tra leader forti ci si capisce, ci si copre. La loro connivenza non ha bisogno di parole: basta il silenzio davanti agli abusi, e l’ammirazione per chi comanda con il bastone e non con la carota.

E che non si venga a dire che la dittatura è solo questione di instabilità interna. La dittatura esige consenso e ora il consenso è una questione più grande. Si amplia dal popolo alla partnership con i più grandi, la cui alleanza costituisce una forma di protezione reciproca e un riconoscimento tacito che la forza è l’unico linguaggio che conta. Così, mentre i popoli si sollevano e le manifestazioni aumentano, dobbiamo esplorare la possibilità che per Erdogan e simili la partita non sia ancora finita. È davvero il capolinea per Erdogan? Forse è ancora troppo presto per dirlo con certezza.

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