Ci sono dei titoli di film destinati a diventare dei veri e propri cult come: “Le fate ignoranti”, titolo del film girato dal regista turco Ferzan Ozpetek all’alba del duemila. In seguito divenuto serie TV e nel gergo quotidiano frase descrittiva per: colpi di scena, cene corali, ambiguità sessuali e rapporti d’amore adulteri. Facendo una vera e propria indagine sul fascinoso titolo si arriva a scoprirne però che la nascita della prima vera “Fata ignorante” è qualche anno precedente a quello che sembra essere un riuscito neologismo del regista; è uno dei lavori meno conosciuti e più mistici del pittore surrealista René Magritte, poco dopo la metà degli anni cinquanta del ‘900.
“La fata ignorante” è capace di compiere il miracolo di travolgerci, di cambiarci la vita permettendoci di crescere. Sono quegli incontri personali che lasciano un segno più o meno profondo e indelebile, tanto che da quel momento in poi, non siamo più gli stessi, non possiamo più esserlo. Ci hanno cambiato, hanno cambiato il nostro percorso, il nostro essere, il nostro sentire. Ha probabilmente un riferimento preciso all’arte del dipingere, così come da lui intesa, che è come una fata ignorante: in grado di rendere una magia di cui le sfugge il senso. “Il senso è l’ impossibile”, amava ripetere Magritte.
E’ neutro quel volto di donna, oggettivamente bello, incorniciato in una disposizione teatrale degli oggetti con il drappo, il cielo, la sfera (che compongono il suo universo immaginario) e con una candela accesa ma dalla fiamma nera, che oscura invece di illuminare. Ricordandoci che spesso nei punti più oscuri si nasconde la luce, come quelle ore più buie della notte che sono le più vicine all’alba.
La candela mette in ombra una metà del viso, quasi a farci capire che in quella luminosa bellezza c’è un qualcosa di oscuro che lei stessa non è in grado di vedere, né tanto meno noi. “La fée ignorante” esprime innanzitutto “l’amore dell’ignoto”, il bisogno di scoprire quanto non si lascia possedere e che sempre rinvia all’ “amore della banalità”.
L’opera del 1956 è esposta a Bruxelles, fatale è il suo incontro dal vivo. Il misticismo della donna dipinta, che guarda lo spettatore sotto quel branco di nubi è assolutamente un atto pittorico dedito all’ enigma che sembra porci un interrogativo basilare: chi siamo veramente? Quanto si è disposti ad illuminare la nostra parte più oscura?
Ci ricorda che la libertà è la possibilità di essere e non l’obbligo di farlo nonostante lei sia lì muta a chiedertelo. Magritte dipinge con una tecnica di illusionismo di ordine onirico, egli illustra, ad esempio, oggetti e realtà assurde: un paio di scarpe che si tramutano nelle dita di un piede o un paesaggio simultaneamente nella parte inferiore notturno e in quella superiore diurno, ricorrendo a tonalità fredde, ambigue, antisentimentali quali quelle del sogno. Scopo dei suoi enigmatici quadri: creare nell’osservatore un “cortocircuito” visivo. Raro è vedere dipinti volti umani dall’artista, ma quando lo fa il mistero resta intatto nonostante la leggibilità del soggetto.
Il pittore belga lo dipinse per Anne-Marie Gillion Crowet, figlia del mecenate e collezionista dell’artista surrealista dal 1925, Pierre Crowet, e da allora il quadro è rimasto sempre di proprietà della famiglia. Quando Magritte conobbe Anne Marie le disse: “Vedi, ti stavo dipingendo già prima di conoscerti” la donna, che ai tempi dell’incontro aveva 16 anni, incarnava l’estetica ideale.
Cosa c’è di meglio che di un po’ di magia senza dottorato? La magia nasce ignorante, è ancestrale nell’ uomo come mezzo di sopravvivenza, con piccoli esperimenti fatti di grandi errori e trionfi.
Solo nei secoli si raffina puntando poi alla scienza. Ma è di una Fata ignorante che ci si deve fidare, l’istinto batterà la dottrina, l’ assenza di ibridazione culturale custodisce i vecchi incantesimi e la verità non potrà più nascondersi