Sono le 20.10 di un afoso agosto parigino. De Gaulle scende dall’auto presidenziale crivellata dai proiettili. Alla rotonda di Petit-Clamart un commando dell’OAS, Organisation de l’Armée secrète dei francesi d’Algeria, composto da 12 uomini apre il fuoco contro il presidente della Rèpublique. Nella sua stessa auto Yvonne, la moglie, e il genero Alain de Boisseu.
Ormai in salvo, de Gaulle osserva i cento fori d’arma da fuoco che hanno lacerato la carrozzeria della sua Citroen DS. Freddo e incolume esclama laconico: “Questa volta ci è mancato davvero poco”. La sua esclamazione rivela il carisma dell’arci-francese Generale. Poche figure hanno incarnato lo spirito nazionale quanto de Gaulle quello di Francia, l’essenza della grandeur dell’Esagono, la Republique Francais.

De Gaulle e la V Repubblica
Bonapartista, autocrate o autentico salvatore della Repubblica? De Gaulle, padre della V Repubblica, ha rappresentato la sintesi dei due poli magnetizzati della storia contemporanea dell’Esagono, l’anodino pendolo francese tra repubblicanesimo e bonapartismo. Un percorso in cui, senza soluzione di continuità, l’ideale della democrazia francese sfuma nella sua ombra, il doppio dell’ autocrazia plebiscitaria: dalla Rivoluzione francese al Comitato di salute pubblica fino a giungere a Napoleone (erede o corruttore dei principi rivoluzionari con la svolta termidoriana?). Dal moto del 48’ europeo in cui Parigi si erge ancora per detronizzare Luigi Filippo, a sua volta salito sul trono dopo la cacciata del ramo borbonico della Corona, fino a giungere al secondo impero di Napoleone III.
Una storia in cui il paradigma democratico del repubblicanesimo sembra dilatarsi fino al suo capovolgimento. Se rivoluzione indica un moto di rotazione completa, secondo il dettato astronomico, e non cesura della storia, mai nessuna storia nazionale come quella della Francia ha incarnato il concetto rivoluzionario.
Paese hegelianamente dialettico nella sua intima essenza, i francesi tenderanno sempre, contrariamente al pensiero pragmatico anglosassone dell’habeas corpus, all’assolutizzazione del concetto di libertà, come scriverà De Ruggiero nella sua storia del liberalismo (molteplicità ontologica criticata dal maestro Croce, monista scettico di forme plurime di libertà). Concetto astratto, ideologicamente di forza senza equali, ma pericolosamente tendente all’identificazione della Repubblica nell’”anima del mondo” incarnata, nella sintesi del monarca illuminato. Pendolo senza posa tra vocazione repubblicana e monarca illuminato.
De Gaulle non è eccezione ma sintesi dell’ambiguità del repubblicanesimo francese, del processo storico che scorre nel sangue dell’Esagono e, uscendo dai confini storici, del concetto stesso di democrazia. Rappresentanza mediata dal processo di voto o forma plebiscitaria direttamente incarnata nel sovrano? “Il potere non deve più essere una questione di parte, ma deve derivare direttamente dal popolo. Da qui ne discende che il Capo dello Stato, eletto dalla nazione, ne è la fonte ed il detentore”.
Con tali parole de Gaulle, l’uomo del 18 giugno, quando si rivolse in esilio a Londra ai microfoni della BBC per incitare i francesi a combattere contro gli occupanti nazisti, in una conferenza stampa del 1964 descriveva la sua concezione della nuova V Repubblica, nata dai due referendum costituzionali votati dal popolo francese nel 1958 e 1962.
Particolare ibrido costituzionale, il testo voluto dal Generale e tagliato su misura dalle mente del giurista Michel Debrè e Renè Cassin, è perfetta affermazione monarchica del presidente, scevro dalla contingenza del quotidiano riservata al Presidente del Consiglio. La costituzione della V Repubblica afferma un sistema originale con caratteri presidenziali ma che mantiene una dimensione parlamentare per via della responsabilità del governo di fronte alla Camere.
Sarà il noto politologo francese Maurice Duverger a coniare il termine divenuto di uso comune di “semi-presidenzialismo”, mentre il maître a penser liberale Raymond Aron icastico definirà il nuovo regime costituzionale una “Repubblica imperiale”.
La grandeur di Francia e il Generale
De Gaulle non rappresenterà solo il dinamico processo del repubblicanesimo d’oltralpe ma in modo quasi sovrapponibile rappresenterà anche tutte le contraddizioni della grandeur della Francia. “Secondo le mie convinzioni” scriveva il Generale nelle sue Memoires de guerre “la Francia non può essere la Francia senza la grandeur”.
Tutt’uno con lo spirito nazionale francese de Gaulle si farà interprete di una Francia forte all’interno di un sistema europeo guidato da Parigi e indipendente dalla Nato. Contrario ad una visione subalterna all’alleato/rivale a stelle strisce, de Gaulle penserà l’integrazione europea non in senso federale ma come confederazione di nazioni sovrane.
La politica della “sedia vuota” così come il duplice veto alla Gran Bretagna per il suo ingresso nella CEE saranno evidenti sintomi dell’intransigenza del Generale nel collegare la rinascita della grandeur francese del dopoguerra al progetto della nascente nuova Europa.
Lontanissimo dalla logica tolstoiana del destino collettivo della storia, de Gaulle, incarnazione di un intero spirito nazionale, lui l’arci-francese, penserà paradossalmente sempre la Storia come determinata dai grandi uomini e dal loro carisma. Ispirandosi, giovane ufficiale a Lille, all’esempio di Clemenceau nel primo conflitto mondiale, scriverà: “La Storia non insegna il fatalismo. Esistono momenti in cui la volontà di qualche uomo rompe il determinismo e apre nuove strade”.