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Riflessioni sulla legalità del silenzio democratico 

In Italia si vota. Per modo di dire s’intende. Ogni tanto qualcuno ci va anche per davvero a votare. Nel senso che la democrazia, quella procedurale c’è: i seggi, le matite, le schede ben piegate, e tutto il resto. A mancare sono i votanti, il dettaglio forse più importante. E la colpa di chi è? Dell’antipolitica, del meteo incerto di giugno? No. Spesso il giorno del voto non si sa nemmeno per cosa votare.

L’8 e il 9 giugno si vota. Non per un referendum, ma per più di uno. Ma a saperlo sono in pochi. Ancora meno quelli che sanno spiegare su cosa si sta andando a votare. E i media che fanno? Si affannano? No, per niente. Senti il Tg1 dire che il referendum è importante. Il Tg2 ricorda che si vota. Il Tg3 aggiunge che è un diritto. Nessuno spiega perché. Ma la pluralità è salva. 

Bisogna cambiare Paese per vedere una campagna elettorale da pop corn o partiti che si azzuffano per il senso civico. In Romania, addirittura, si corre al voto dall’estero. Qui in Italia i politici al massimo rincorrono l’approvazione di un qualche “padrone di casa” esterno. I pop corn? Li lasciamo alle polemiche del 25 aprile. Ma la democrazia qui dov’è? Il senso civico? 

A giugno, l’italiano medio ha già la valigia pronta per il mare, mica per il seggio elettorale. E lo capisco pure l’italiano medio. Dopotutto c’è l’art. 21 a proteggerci. La libertà di scegliere se andare a votare o restarsene a casa è garantita dalla Costituzione, la stessa che protegge la libertà di espressione. (Peccato che l’Italia sia al 49° posto per libertà di stampa). Siamo democratici. Formalmente liberi, sostanzialmente silenti. Quindi anche liberi di non esprimerci. 

Ma la libertà di espressione da sola non basta. Alla fine, il vero nodo è la burocrazia. Una gabbia all’informazione politica. La par condicio – che sulla carta dovrebbe garantire equità – esiste, ma di “par” ha poco. La legge n. 28/2000 assegna un minuto al sì e uno al no per spiegare le proprie ragioni. Sessanta secondi netti netti, quanto il tempo per skippare una pubblicità. Senza contemplare la terza opzione che, tra i due litiganti, gode: il silenzio. E il silenzio vince a mani bassissime. Non c’è scritto da nessuna parte che si debba per forza parlare del referendum dell’8 e 9 giugno. “Bene o male, purché se ne parli”, sentenziava un saggio. E i talk show, invece, scelgono il silenzio. Per seguire i padroni dei palinsesti. Per seguire le logiche di mercato. D’altronde lo share cade a picco quando i discorsi si fanno seri. Più del Titanic.

Nel frattempo l’AGCOM, nella sua relazione annuale, certifica che la par condicio viene rispettata alla lettera. E bravi i burocrati italiani! Il che significa che, sì, il silenzio assoluto è perfettamente legale e democratico. Una contraddizione che fotografa bene il nostro sistema: se le regole su carta sono rispettate, va tutto bene. Che la realtà sia un’altra non interessa a nessuno.

C’è però da dire che se il ranking nazionale non ci proietta ai vertici della libertà di stampa, almeno un talento ce l’abbiamo. E lo prendiamo anche sul serio. Subito dopo la capacità di cambiare schieramento in guerra e di rinnegare i valori europei. L’arte di ignorare: se non ne parliamo, il problema si risolve da sé. Niente quorum, niente legge. Tanto qualcun altro ci penserà per noi. I Politiconi con la P maiuscola. Che da destra a sinistra pensano alla democrazia. Sì sicuramente. Al massimo, se va male, possiamo lamentarci. In quello siamo i campioni. Con tanto di medaglia.

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