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Piano Madagascar: orrori tra echi storici e banalizzazione del male

Nel mare spesso torbido della storia, alcune idee emergono non per la loro realizzabilità, ma per ciò che rivelano delle menti che le concepiscono. Il Piano Madagascar, formulato dal regime nazista tra il 1938 e il 1942, è uno di questi casi: un progetto che intreccia antisemitismo, geopolitica e delirio ideologico. E proprio per questo, vale la pena ricordarlo — nonostante, o forse proprio perché, non vide mai la luce. L’idea era tanto semplice quanto agghiacciante: trasferire gli ebrei europei in massa sull’isola di Madagascar, allora colonia francese, trasformandola in una gigantesca prigione naturale sotto controllo tedesco.

Si stima che il piano prevedesse la deportazione di circa quattro milioni di persone. Il concetto non era nuovo: già in ambienti coloniali francesi e britannici, Madagascar era stato evocato come “soluzione” per “il problema ebraico”. Ma i nazisti furono i primi a trasformare questa fantasia in un apparato burocratico semi-formale. Dopo la caduta della Francia nel 1940, l’idea sembrava divenuta improvvisamente praticabile. Adolf Eichmann, figura chiave della “soluzione finale”, mise nero su bianco una bozza del piano.

Si immaginava un’amministrazione delle SS sull’isola, la confisca dei beni ebraici per finanziare il trasporto, e un isolamento totale dal resto del mondo. Era un progetto di estinzione culturale mascherato da deportazione. Ma il piano non fu mai attuato. Il dominio britannico sui mari rese irrealistico qualsiasi trasporto di massa. Nel frattempo, dentro l’apparato nazista maturava un’alternativa ben più radicale: lo sterminio sistematico nei campi della morte. Il Piano Madagascar venne così silenziosamente archiviato, lasciando il posto alla “soluzione finale” di Wannsee.

Eppure, il suo significato storico resta inquietante. Non solo per ciò che rappresentava — un’anticipazione della Shoah — ma per il modo in cui dimostra la banalità logistica del male. Uomini colti, funzionari, ingegneri della burocrazia, tutti impegnati a disegnare mappe, calcolare navi, pianificare recinti, come se stessero organizzando una fiera internazionale anziché un progetto di apartheid globale. Non sono mancati allora echi di queste ignominie ideologiche nell’ambito dell’attuale conflitto isreaelo-palestinese, da cui ha iniziato ad aleggiare, facendosi strada tra faziose testate giornalistiche, l’idea di un “Piano Somalia”, che vede la popolazione di Gaza essere trasferita massicciamente nel continente africano, come “soluzione definitiva” di una guerra moralmente ed umanamente logorante.

Un accostamento di simili piani sembrerebbe però una provocazione cui alcuni commentatori non hanno saputo resistere, piuttosto che una realtà politica da attuare. Senza neppure indugiare sull’assurdo di un accostamento assolutamente incongruo, per costruzione, movente e modalità, è forse opportuno rispettare quanto stia drammaticamente accadendo, senza cedere a tifoserie imbarazzanti. Ricordare il Piano Madagascar non serve a collezionare orrori, ma a comprendere fino a che punto l’ideologia può piegare la razionalità. È un monito su ciò che accade quando la pianificazione sostituisce la coscienza, e l’utopia si trasforma in genocidio.

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