Quando nel 1972 Federico Fellini girava Roma – suo omaggio definitivo alla città che lo aveva adottato – faceva dire, per bocca di uno scrittore americano, che «Roma è la città delle illusioni. Non a caso qui c’è la Chiesa, il Governo, il Cinema: tutte cose che provocano illusione».
Lo scrittore, un po’ avvinazzato, dava il suo punto di vista sull’Urbe da quello che tutt’oggi sembra essere l’affaccio più preciso per conoscere gli umori, gli istinti, le rabbie della Capitale, ovvero i tavolini sgangherati di una qualsiasi osteria del rione Trastevere.
A pochi passi da quelle tovaglie a quadri, da quei quarti di vino, da quelle risate scomposte, ed esattamente sulla medesima scalinata di 126 scalini che aveva visto crescere Sergio Leone, dopo oltre quarant’anni, percorreva i primi passi la Love Gang, collettivo da cui sono emersi, negli ultimi anni, gente tipo Franco126, Ketama126, Pretty Solero e Ugo Borghetti.
E proprio ai tavolini del bar più iconico di Trastevere – il San Calisto – incontriamo Ugo Borghetti, convinti che le interviste sono un po’ come i concerti e che quindi un artista, se vuoi comprenderlo fino in fondo, devi ascoltarlo nel suo habitat naturale.

Sull’ultimo libro di Iperborea dedicato a Roma personaggi tipo Francesco Pacifico ti definiscono come uno degli artisti più interessanti della scena romana. Che effetto ti fa e che stimoli ti dà per il futuro?
«Diciamo che gli stimoli a continuare vengono più quando in tasca inizia ad entrarti qualcosa, ma comunque essere definito in quel modo e su quel libro mi ha fatto molto piacere. Poi, nel caso specifico, ha speso veramente belle parole»
In un momento in cui tutta la scena si butta a capo fitto sulla trap, tu ritorni allo storytelling. Una scelta forse meno comoda ma sicuramente efficace…
«Tralasciando il fatto che non sono capace a fare quella roba, sicuramente se facessi trap anche io sarei soltanto uno dei tanti. Invece così io faccio la cosa mia, che fanno in pochi, e vado avanti per la mia strada…»
Hai una scrittura molto narrativa, che sembra procedere per immagini. Come concepisci i tuoi testi?
«Come dico sempre, cerco di scrivere e trasmettere quello che i miei occhi hanno visto e vedono – purtroppo ancora tutti i giorni. Per questo motivo mi piace scrivere mentre sono in giro.»
Qual è il tuo rapporto con Roma? Riusciresti a vivere e quindi a scrivere un disco fuori da questa città?
«Roma per me è madre, moglie, amante. Amo ‘sta città, ‘sti sampietrini oltre ogni cosa ma devo dire che ci sono stati periodi in cui mi sentivo soffocare.
Ho vissuto per periodi all’estero, ma tanto se torna sempre a beve l’acqua dalle stesse fontanelle. Io scrivo molto fuori casa, per strada. Quindi non è un problema scrivere in altre città, basta che c’è un bar, un tavolino e della gente che vive intorno a me e io prenderò ispirazione da ciò che vedo».
Trastevere e i suoi personaggi. Regalaci un tuo ricordo di questo rione.
«Di personaggi e storie ce ne stanno mille, ma il 90% delle cose che so’ successe non si possono raccontare (ride, ndr.)
Però una persona che mi è rimasta più a cuore è senza dubbio Luigi Er Vikingo, a cui ho dedicato anche una canzone, Campare di Campari.
Da quando se n’è andato, per me è come se fosse sparito un pezzo di Trastevere».
Cosa possiamo anticipare ai fan, per le prossime uscite?
«Che sto tornando, manca poco. In questi mesi ho pensato spesso di smettere e ancora non so se ‘sta cosa della musica debba essere davvero il mio lavoro.
Per adesso però posso dirti che in questo disco ci ho messo tutto, ma tutto davvero. Non sarà sicuramente un disco leggero, però sarà un disco sincero! Ho cercato di raccontare me stesso senza strafare, senza dover dire che sono per forza il migliore».
Se potessi scegliere un featuring con un artista non necessariamente rap, chi vorresti coinvolgere?
Adesso come adesso voglio soltanto tornare a fare musica con i miei fratelli della 126. Detto onestamente, non ci sono altri feat che vorrei fare!