Dopo anni di cattivo giornalismo televisivo, il rigoroso studio storico-scientifico “Le vasche di Leonardo tra realtà e ipotesi”, fa luce sulla funzione delle tre vasche lapidee conservate all’interno dell’antico ospedale fiorentino. Polistampa, pp. 48, Euro 12.
In un vasto ambiente dalle suggestive volte a crociera, adiacente alla chiesetta dedicata a Sant’Egidio, si trovano da secoli tre ampie vasche in arenaria, ognuna scolpita in un blocco unico; gli archivi dell’ospedale (fondato nel 1288 da Folco Portinari), tacciono in merito alla data di acquisizione e ala funzione svolta dalle vasche. Da questo silenzio, sono nate nei secoli le più svariate leggende, ora del tutto confutate.
Il volume è articolato in quattro brevi capitoli – dal doppio testo italiano/inglese -, che con l’asciuttezza che si conviene a un testo di divulgazione scientifica, espongono in maniera chiara e coinvolgente il lavoro di ricerca svolto su questi antichi manufatti.
Il lungo esame dell’archivio ospedaliero, di cui dà ragguaglio il secondo capitolo, non ha fornito testimonianze utili, per cui il gruppo di studiosi si è affidato alle fonti indirette, notando l’analogia delle vasche di Santa Maria Nuova con un’altra ancora oggi conservata in una bottega situata in un quartiere cittadino di antica vocazione manifatturiera. Vista la similitudine, l’indagine è proseguita studiando l’attività economica promossa dall’antico ospedale. Dai documenti risulta che già nel 1366 esisteva una bottega dedita alla lavorazione della lana, adiacente a Santa Maria Nuova e da questo acquistata. Successivi documenti riportano ulteriori acquisizioni, che testimoniano la gestione da parte dell’ospedale di botteghe legate alla manifattura. Ulteriori ricerche hanno permesso di appurare come le botteghe fossero ubicate tra via Sant’Egidio e via della Pergola; la presenza di un’area non edificata e utilizzata per il “purgo” ovvero la pulitura della lana, lascia pensare che le vasche in questione, in antico si trovassero appunto all’aperto, e fossero adibite a questa funzione. L’attività, riportano ancora i documenti, terminò fra il 1444 e il 1445.
Una seconda ipotesi propende per un utilizzo di conservazione alimentare delle vasche, poiché il “sito da purgo” venne convertito a granaio nel 1451, come riportato nel contratto di vendita di un’abitazione adiacente. Ipotesi però smentita dalle analisi di laboratorio, come vedremo più sotto. Infine, lo studio smentisce anche l’ipotesi di un utilizzo delle vasche per il disseziona mento dei cadaveri, spiegando come la conformazione stessa delle vasche non l’avrebbe permessa (foro di scolo troppo piccolo, eccessiva profondità che rendeva scomodo lavorarci); a questo si aggiunge il fatto che la sala voltata, nata in un certo senso attorno alle vasche, non è dotata di finestre, pertanto non ci sarebbero state le condizioni igieniche per evitare l’accumulo di batteri e gas mefitici. Manca anche lo scarico per i liquidi organici, che si sarebbero semplicemente raccolti sul pavimento. Accantonata quindi l’ipotesi fantasiosa dell’utilizzo delle vasche da parte di Leonardo da Vinci per dissezionarvi cadaveri, e acquisita invece quella su un utilizzo manifatturiero, la nascita della leggenda leopardiana può essere parzialmente spiegata con il fatto che la Compagnia dei Pittori detta di San Luca, ebbe a lungo la sua sede all’interno dell’ospedale di Santa Maria Nuova, e l’accostamento della vasche alla figura di Leonardo potrebbe essere nata dalla suggestione del personaggio, che fu sì pittore, ma anche scienziato, e condusse numerosi esperimenti. Ma non in queste vasche.
Il saggio ha il merito di non essere scritto in un linguaggio eccessivamente esegetico, e si presta pertanto a una lettura da parte di un vasto pubblico, che gli autori guidano nella lunga ricerca fra i documenti antichi, alla scoperta di un piccolo tassello della storia fiorentina.
Niccolò Lucarelli