All’alba, la luce scivola lenta sulla costa di Bengasi. Dal porto arrivano odori di carburante e di mare salmastro, mescolati al rumore metallico delle gru. In una stanza lontana dal frastuono, Khalifa Haftar studia mappe e rapporti. La Cirenaica che governa è vasta e dura, con giacimenti sotterranei che promettono ricchezza ma anche catene di dipendenza.
A nord, oltre il Mediterraneo, c’è un altro uomo che scruta carte e confini. Recep Tayyip Erdogan non guarda soltanto i contorni della Turchia: per lui il mare è estensione della terra, spazio da reclamare e proteggere. Sotto la superficie, in quell’angolo centrale del Mediterraneo, ci sono riserve di gas e petrolio che potrebbero nutrire la sua strategia energetica per anni.
Non è passato molto tempo da quando i due si guardavano da fronti opposti.
Nel 2019, i cieli sopra Tripoli erano attraversati da droni turchi, inviati a difendere il Governo di Accordo Nazionale. Sul terreno, le forze di Haftar avanzavano da est, sostenute da armi e consiglieri egiziani e dagli Emirati. Era una guerra fatta di assedi, di strade vuote e di trattative in stanze chiuse a Bruxelles e Il Cairo.
Oggi, quegli stessi leader sembrano disposti a parlare. Non per amicizia, ma per necessità.
Il primo gesto di apertura non è arrivato direttamente da Haftar, ma da suo figlio Saddam. Un viaggio silenzioso verso Istanbul, qualche incontro ufficiale e molte conversazioni fuori dai riflettori. Ha stretto la mano al ministro della Difesa turco, Yaşar Güler, con un sorriso calcolato.
Per chi osserva queste mosse, il messaggio è evidente: Bengasi non vuole più restare confinata nel proprio perimetro di alleanze. Sta cercando nuovi canali, anche se arrivano da chi, fino a ieri, era un avversario.
Ankara si muove seguendo una rotta precisa: la Mavi Vatan, la “Patria Blu”. È una dottrina che non vede il mare come un vuoto tra coste, ma come territorio vivo, parte integrante della sovranità nazionale. Erdogan la pronuncia spesso nei suoi discorsi, come un manifesto.
Nel 2019, proprio in nome di questa visione, la Turchia firmò con Tripoli un accordo marittimo che ridisegnava le zone economiche esclusive. La reazione fu durissima: Atene lo considerò una violazione diretta del diritto internazionale, Il Cairo denunciò una minaccia alla propria sicurezza marittima, Bruxelles parlò di destabilizzazione.
La Cirenaica restò fuori da quell’intesa. Adesso, Erdogan vuole colmare quel vuoto, negoziando direttamente con chi la governa.
Per Haftar, il linguaggio è semplice: bilanci e rifornimenti. La Cirenaica produce energia, ma non ha le infrastrutture per trasformare quel potenziale in ricchezza stabile. Dipendere solo dall’Egitto o da pochi compratori è rischioso.
La Turchia offre cantieri, società energetiche, rotte di esportazione già attive verso l’Europa e l’Asia. Aprire la porta ad Ankara significherebbe moltiplicare le opzioni. E in un Paese instabile come la Libia, chi ha più opzioni ha più margini di sopravvivenza.
Ogni mossa, però, ha spettatori attenti.
La Grecia teme che un’intesa possa spostare le linee marittime a suo svantaggio. L’Egitto osserva con crescente fastidio, temendo che un alleato storico si avvicini troppo a una potenza rivale. L’Unione Europea, già divisa sul dossier libico, teme una frammentazione ancora più marcata: una Libia spezzata in due sfere di influenza, una turca e una araba, renderebbe ogni missione diplomatica più complessa.
Né Erdogan né Haftar hanno interesse a bruciare le tappe. Le loro mosse sono misurate. In pubblico, poche parole e formule vaghe. In privato, discussioni sulle rotte commerciali, sui confini da ridisegnare, sugli investimenti nei porti e nelle strade che collegano la costa all’entroterra.
Si muovono come giocatori di scacchi che conoscono bene il peso di ogni pedina. Sanno che un passo falso può attirare ritorsioni, sanzioni o l’isolamento.
Se l’intesa dovesse concretizzarsi, la Turchia otterrebbe una posizione di forza nel Mediterraneo centrale, e la Cirenaica potrebbe trasformarsi in un hub energetico capace di attrarre nuovi partner. Ma il percorso è stretto: i venti contrari arrivano da più direzioni e il terreno politico libico resta instabile, scosso da rivalità interne e pressioni esterne.
Eppure, sotto la superficie di queste tensioni, resta una verità semplice: entrambi hanno più da guadagnare che da perdere. Erdogan vede nel gas e nel petrolio libico un tassello per l’autonomia energetica. Haftar vede nella Turchia un ponte verso mercati e tecnologie che oggi gli sfuggono.
In fondo, sarà il Mediterraneo a decidere. Le sue acque separano e uniscono, offrono rotte e ostacoli, risorse e tempeste.
In questo spazio mutevole, due leader che un tempo si fronteggiavano con armi e propaganda ora cercano un punto d’incontro. Non per riconciliazione, ma per calcolo.
E forse, in un angolo di quella costa libica dove il vento sa di sale e di petrolio, è già cominciata una nuova partita. Invisibile agli occhi di molti, ma destinata a ridisegnare la mappa del potere nel Mediterraneo.