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Il Corridoio di Morag, quell’ostacolo alla tregua

Le trattative per un cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas sono entrate in una fase decisiva. Dopo mesi di conflitto, una possibile tregua di 60 giorni è oggi sul tavolo delle negoziazioni, con la mediazione congiunta di Stati Uniti, Qatar ed Egitto.

Secondo fonti israeliane e statunitensi un accordo potrebbe arrivare entro una o due settimane, ma non immediatamente. Il governo israeliano ha ribadito che il ritiro militare totale, così come richiesto da Hamas, non è un’opzione sul tavolo per ora. Ma a ostacolare l’accordo resta un altro elemento: il corridoio di Morag, la fascia di territorio nel sud della Striscia di Gaza.

Il corridoio di Morag

Il corridoio di Morag, istituito de facto da Israele durante l’offensiva di aprile 2025, separa la parte meridionale della Striscia di Gaza tra Rafah e Khan Younis. Il nome fa riferimento ad una colonia israeliana costituita lì tra il 1972 e il 2005. Un riferimento chiaro al reale piano di Israele che con la riconquista del corridoio Netzarim – a nord di Gaza – e la creazione di Morag, ha già diviso la Striscia in tre fasce.

Tel Aviv lo considera un’infrastruttura strategica per garantire la “sicurezza del sud” e impedire il ritorno di Hamas nelle aree evacuate. Secondo alcuni osservatori però si tratterebbe del primo passo verso il cosiddetto “piano delle 5 dita”, come fu soprannominato per la prima volta nel 1971 da Ariel Sharon. Tuttavia, per Hamas e una parte della comunità internazionale, il Corridoio di Morag è una forma di occupazione permanente sul modello della Cisgiordania.    

Ostaggi e aiuti: i pilastri della proposta

Secondo fonti diplomatiche, tra le richieste per l’avvio della tregua ci sarebbe il ritiro israeliano da Morag. Il corridoio, infatti, taglierebbe fuori anche il valico di Karem Shalom, che – insieme a quello di Rafah – era uno dei principali valichi per l’ingresso di aiuti.

Hamas sarebbe disposta a liberare almeno 10 ostaggi israeliani ancora in vita, insieme ai corpi di altri prigionieri deceduti. In cambio, chiede garanzie concrete sull’apertura dei valichi per gli aiuti umanitari e il blocco delle operazioni militari israeliane per almeno due mesi.

Sul fronte umanitario, l’ONU ha lanciato l’allarme: la mancanza di carburante e la distruzione di infrastrutture stanno portando la Striscia al collasso. Ospedali, impianti idrici e impianti fognari sono sull’orlo dell’inoperatività.

Bibi e Donald

Nel frattempo, il 7 luglio Netanyahu e Trump si sono incontrati alla Casa Bianca per discutere del sostegno diplomatico e l’“impegno personale” del MAGA per garantire la durata del cessate-il-fuoco almeno per i 60 giorni previsti. L’incontro è stato documentato dalle maggiori testate giornalistiche anche, e soprattutto, per la scenografica consegna della lettera di candidatura al Nobel per la pace che il premier israeliano ha consegnato al presidente statunitense.

«Dobbiamo completare il lavoro in Gaza, rilasciare tutti gli ostaggi, eliminare e distruggere le capacità militari e governative di Hamas» ha poi dichiarato Netanyahu. L’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, invece ha spiegato che i negoziati sono no passati da quattro a un solo tema rimasto aperto, ed è apparso ottimista su un accordo entro fine settimana.

Per le prossime fasi dei negoziati, Witkoff resta a Doha per perfezionare la proposta. Mentre dalla Casa Bianca arriva la certezza che Israele abbia già accettato le condizioni proposte dagli USA. Ora sta ad Hamas accettare la proposta finale.

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