Un accordo fiscale che si intreccia con la geopolitica, la sovranità degli Stati e la competitività industriale. È questo lo scenario uscito dal G7 del 25 giugno a Kananaskis, in Canada, dove i Grandi della Terra si sono confrontati su una questione ormai centrale per l’equilibrio economico globale: la tassazione delle multinazionali.
L’adozione di meccanismi condivisi di fiscalità internazionale risulta fondamentale per evitare fenomeni di dumping e rispondere alla crescente crisi fiscale delle democrazie occidentali. La possibilità di implementare un fisco internazionale più equo rappresenta un nodo fondamentale per far fronte alla libertà di spostamento di capitali delle grandi bit tech multinazionali.
In particolare la Global Minimum Tax nasce da una spinta dell’OCSE post-crisi del 2008, per limitare l’elusione fiscale e l’erosione delle basi imponibili delle big corporate, spesso abili nel trasferire utili nei Paesi a fiscalità agevolata. Il progetto si sviluppa in due pilastri:
- Il Pillar 2, oggi al centro del dibattito, mira a introdurre una soglia minima di tassazione globale per le multinazionali con ricavi superiori a 750 milioni di euro.
- Il Pillar 1, ancora più ambizioso, punta a redistribuire i profitti delle big tech (oggi tassate spesso nei soli Paesi dove hanno sede legale) anche nei Paesi dove generano valore.
Cosa cambia con l’accordo del G7?
Al vertice canadese si è evidenziata in particolare la resistenza storica degli Stati Uniti all’implementazione del Pillar 1: Washington ha sempre rifiutato qualsiasi imposizione sulle proprie Big Tech per il fatturato generato all’estero.
Tale pilastro della GMT riguarda infatti la riallocazione dei diritti di imposizione tra gli Stati, ovvero chi ha il diritto di tassare certi profitti delle multinazionali. L’obiettivo è far sì che una parte degli utili delle grandi multinazionali sia tassata nei Paesi in cui hanno clienti e generano ricavi, anche se non vi hanno una presenza fisica (es. sedi, magazzini, filiali).
Durante il G7 canadese, a fronte della disponibilità USA a riprendere la collaborazione con l’Inclusive Framework (“IF”), il tavolo multilaterale creato dall’OCSE e dal G20 per l’attuazione delle regole fiscali globali contro l’elusione, e a ritirare la c.d. “revenge tax” contenuta nel “One Big Beautiful Bill Act”, è stato compiuto un significativo passaggio per riconoscere il regime fiscale statunitense GILTI (Global Intangible Low-Taxed Income) come equivalente alla Global Minimum Tax.
Tale passaggio rappresenta un punto decisivo, in quanto comporta un mutamento fondamentale nella logica di calcolo della tassazione globale. Se originariamente la GMT operava, per la questione di calcolo impositivo. su una logica di singola giurisdizione statale (jurisdictional blending), per gli Stati Uniti verrà riconosciuto un calcolo a carattere globale (global blending)
Questa differenza tecnica consente alle multinazionali con capogruppo negli Stati Uniti di calcolare l’imposizione fiscale su base aggregata, piuttosto che Stato per Stato. Sebbene non si tratti di un’esenzione in senso stretto, la misura consente una coesistenza tra regimi fiscali differenti, mantenendo gli obiettivi comuni di contrasto all’erosione della base imponibile.
Le implicazioni per l’Unione europea
L’Unione europea, che ha recepito la GMT con una direttiva in vigore dal gennaio 2024, continuerà ad applicare invece il modello jurisdictional blending. Ciò comporta per le imprese europee un’analisi dettagliata per ciascun Paese in cui operano, con un potenziale impatto in termini di oneri amministrativi e costi di compliance. Su questo punto interviene Gaetano De Vito, presidente di Assoholding:
“Uniformare la base imponibile” spiega il Presidente di Assoholding, Gaetano De Vito, esperto di fiscalità internazionale” è una condizione imprescindibile: altrimenti rischiamo un aggravio di burocrazia che si scontra con le regole già complesse di determinazione dell’imponibile, nazionali e internazionali. Tutto ciò rappresenta un ulteriore costo di compliance per le imprese”.
La questione della digital service Tax
Il rischio è che la GMT diventi un costo burocratico e di adeguamento solo per le imprese europee. Strettamente collegato al Pillar 1 è la questione della Digital Service Tax, introdotta in via unilaterale da alcuni Paesi europei (Italia, Francia, Spagna) per tassare i ricavi digitali. Questa tassazione rappresenta infatti l’altra faccia della stessa medaglia relativa al nodo di un modello di fiscalità internazionale equo. E, ancora una volta, nel mirino ci sono gli Usa. Trump minaccia dazi e sanzioni contro chi applica la digital tax, giudicata “discriminatoria” verso le società americane.
In ogni caso i numeri, carta alla mano, risultano modesti: l’Italia incassa circa 455 milioni l’anno, la Francia poco di più. E più della metà del gettito proviene da aziende non digitali o addirittura nazionali. Eppure, per Washington il principio è intoccabile: niente tasse estere sulle Big Tech americane.