Qualcuno potrebbe chiedersi perché dare a questa recensione il medesimo titolo del brano portato presentato da Simone Cristicchi all’ultima edizione del festival di Sanremo, il quale ci ha esaltato, commosso o tediato (a seconda dell’utenza), trattando il delicatissimo e toccante tema dei figli che si ritrovano ad essere tutori dei propri genitori quando questi si divengono anziani, indifesi, o invalidi.
Ecco, sostituite il cantautore romano con una bambina costretta a crescere troppo in fretta, l’anziana madre invalida con un’adolescente disfunzionale troppo cresciuta nel corpo di una donna matura solo per l’anagrafe e aggiungete al tutto una nonna portatrice di traumi e nodi irrisolti che non ha mancato di trasmettere ai vari discendenti, e otterrete “Gina”, film di Ulrike Kofler dedicato al tema della genitorialità, alle responsabilità che questa comporta e a come queste vengano troppo spesso ignorate, a come in una situazione di crisi si scelga fin troppo spesso di distruggere piuttosto che costruire, ai dolori e traumi irrisolti trasmessi di generazione in generazione, e alla volontà necessaria per spezzare un circolo vizioso che la maggior parte delle volte si sceglie di assecondare non perché inevitabile, ma perché tremendamente più facile.
16 anni e (troppe volte) incinta
La storia ruota intorno alla piccola Angelina (Emma Lotta Simmer), detta “Gina”, figlia primogenita e senza ombra di dubbio figura più matura e consapevole della sua disfunzionale famiglia composta dalla madre Brigitte (Marie-Louise Stockinger), rimasta incinta da ragazza e presumibilmente passata da una relazione turbolenta all’altra, Nico e Leon gli altri due figli di Brigitte, e la nonna Branca (Gerti Drassl), donna tragicamente simile a sua figlia Brigitte sia nel carattere che nel modo di vivere il suo ruolo di madre, ossia nessuno.
A fare capolino ogni tanto in questo quadro tutt’altro che organico è Vincent (Michael Steinocher), amante di Brigitte e padre della bambina di cui è in attesa all’inizio del film, Helena.
Fin da subito è evidente come Gina sia la vera figura di riferimento in famiglia: è lei a preparare i pasti, a svegliare tutti al mattino, ad accompagnare i fratellini a scuola o in piscina e a interloquire con i rappresentanti dei servizi sociali che regolarmente visitano la casa della sua famiglia.
Se Gina è l’eroina della storia, figura portatrice di ordine ed equilibrio, Gitte ne è la caotica e tragicomica antieroina: spegne letteralmente la propria coscienza ogni volta che le è possibile con qualsiasi mezzo a sua disposizone, e quando è lucida sembra letteralmente voler collezionare comportamenti distruttivi sia per lei che per la propria idoneità a portare avanti una famiglia, come mettersi al volante di un auto che non sa guidare mentre è in stato di ebbrezza, o fumare in gravidanza.
Il rapporto tra queste figure così antitetiche eppure così indissolubilmente legate è il perno intorno al quale ruota l’intera vicenda: laddove sarebbe stato più facile impostarlo come un conflitto aperto e continuo, la regista lo rende profondo, reale e colmo di sfumature, alternando momenti di incomunicabilità totale ad altri in cui le due donne (una nella mentalità, l’altra solo fisicamente) appaiono più come due amiche, due compagne di viaggio che si supportano e sopportano a vicenda, piuttosto che come una madre e una figlia.
E in effetti ciò che va a definire Gina come l’eroina della storia è il modo in cui questa, contrariamente alla madre Gitte che subisce passivamente qualsiasi input esterno, mantiene la propria essenza immutata resisitendo a qualsiasi influenza: laddove Gitte ripete quasi per imprinting gli stessi errori di sua madre, Gina le pone delle domande e la mette in dubbio costantemente, laddove Gitte sembra porsi sullo stesso livello dei due figli minori Nico e Leon interpretando il ruolo dell’adolescente ribelle e problematica, Gina ne diviene a tutti gli effetti madre putativa, e laddove Vincent può ripresentarsi agli occhi di Gitte anche dopo il più bieco dei tradimenti o la più furibonda delle litigate e averla comunque vinta grazie all’incapacità di lei di stare senza qualcuno al suo fianco, Gina trova la lucidità di vedere oltre il banale regalo e scorgere l’ennesimo individuo problematico incapace di rivelare quello che ha dentro.
Essere o non essere madre
A conti fatti, “Gina” è la paradossale parabola di una donna nel corpo di una bambina costretta ad essere madre quando dovrebbe essere figlia e di una ragazzina nel corpo di un’adulta che si rifiuta di crescere laddove il suo ruolo lo richiederebbe, cosa che porta lo spettatore a porsi una domanda tanto importante quanto scontata: perché mai persone totalmente inadatte al ruolo di genitori scelgono comunque di esserlo?
Le possibili risposte sono molteplici, e tutte portano semplicemente ad altre domande.
Perché vogliono essere genitori migliori di quelli che hanno avuto?
Perché sperano che un ruolo di responsabilità possa in qualche modo redimerli da una vita di eccessi?
Per semplice desiderio di compagnia?
Oppure perché subiscono passivamente ciò che accade nella loro vita?
Forse queste risposte sono tutte vere oppure non lo è nessuna, ma all’autrice Ulrike Kofler, la quale conosce molto bene la realtà delle famiglie disfunzionali avendo essa stessa un bambino in affidamento, non interessa arrogarsi il diritto di dare risposte definitive a domande così complesse che persino porsele risulta difficile, ciò che le importa è raccontare come l’essere umano può reagire a questo tipo di situazioni, che sia opponendosi stoicamente a qualsiasi tipo di avversità si ponga sul suo cammino, lasciandosi andare agli istinti più primordiali e irrazionali, o cercando di ricostruire la propria vita ogni giorno che passa, che sia imparando a guidare finalmente un auto, cominciando a nuotare senza braccioli, bevendo un bicchiere di meno, o semplicemente cogliendo quell’occasione di essere piccoli che per tutta la vita, per un motivo o per l’altro, ci si è negati da soli.