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Il gap di genere nell’occupazione: un problema ancora presente in Italia

Uno scenario “favorevole” quello che veniva illustrato nel report del 6 dicembre dall’Istat, riguardante le prospettive per l’economia italiana nel periodo 2022-2023, con una riduzione dei prezzi per i prossimi mesi e una completa attuazione di investimenti pubblici. Previsione confermata dall’ultimo report Istat del 30 gennaio: a dicembre 2022, rispetto al mese precedente, aumentano occupati e disoccupati mentre diminuiscono gli inattivi. Inoltre, il numero di occupati supera quello di dicembre 2021 con +334 mila unità (+1,5%). Ma in questo scenario, le donne sono collocate in svantaggio rispetto alla componente lavorativa maschile: delle 334 mila unità in più, l’88% sono rappresentate da uomini. Sempre a dicembre 2022 rispetto all’anno precedente, i posti di lavoro in più occupati da uomini sono 296 mila contro i 38 mila occupati da donne. Ma rispetto a novembre, quando si erano persi 27 mila occupati in un mese, si è registrato un aumento di 37 mila occupati: 19mila donne e 18mila uomini. Il tasso di occupazione per le donne si attesta al 51,3% mentre per gli uomini al 69,6%. In totale, si contano 13.452 occupati e 4689 inattivi per quanto riguarda i maschi mentre per le donne: 9763 occupati e 8074 inattivi.

Possibili soluzioni: l’importanza della domanda e della formazione

In questo scenario, è importate individuare e analizzare il ruolo attivo che le imprese e gli enti pubblici possono avere nel determinare questo fenomeno. In questo contesto, il ruolo della domanda di lavoro è fondamentale. Il divario occupazionale però non è un fenomeno tutto italiano. E’ ben presente un po’ in tutti i paesi dell’Eurozona. Tuttavia è particolarmente rilevante nel nostro paese: in Europa il tasso di occupazione femminile è di circa il 69%, 12 punti in più rispetto all’Italia mentre quello maschile è solo di 3,5 punti in più rispetto alla media italiana (78,6%).

Oltre alla questione dei figli, la cui responsabilità e gestione spesso ricade sulle donne – costringendole talvolta a scegliere tra la cura dei figli e il lavoro – una problematica è appunto la bassa domanda di lavoro da parte delle donne.

Quali sono le cause?

Sono varie, da quelle socioculturali a quelle più specifiche legate alle caratteristiche della struttura produttiva: le mansioni richieste molto spesso sono più consone a uomini formati che donne, specialmente in campi quali le attività estrattive, le costruzioni, l’elettricità, i trasporti, l’agricoltura e nel settore manifatturiero e in quello dell’ICT (Tecnologie dell’informazione e della comunicazione).

Viceversa, la quota di donne è alta in campi quali istruzione, ristorazione, salute e assistenza sociale e servizi domestici. Ma anche in settori come la pubblica amministrazione, che vede ogni anno un numero sempre maggiore di donne tra i partecipanti ai concorsi pubblici (il motivo sarebbe da legare ad una maggiore stabilità nell’ambito degli stipendi e degli orari di lavoro, qualora ad esempio si decidesse di diventare madri), siamo 13 punti percentuali sotto la media della presenza femminile nelle PA dell’Eurozona.

Per favorire l’aumento della domanda di lavoro femminile occorre aumentare la presenza delle donne nei percorsi formativi e di istruzione che possano dar loro sbocchi occupazionali in quei settori dove la loro presenza è minore. Tutto ciò però necessiterebbe di maggiori risorse finanziarie a disposizione e in parallelo, di adeguate norme politiche.

Un esempio: dalle quote rosa nel Codice degli appalti al PNRR

Con il comunicato del 30 novembre 2022, l’ANAC forniva indicazioni e suggerimenti specifici alle stazioni appaltanti per l’applicazione dell’articolo 46 bis del Codice delle pari opportunità, introdotto dall’articolo 4 della legge del 5 novembre 2021 n. 162, in base al quale era richiesta la previsione nei bandi di gara, di criteri premiali in relazione al possesso della certificazione della parità di genere.

In particolare, venivano fornite indicazioni in merito alle certificazioni sulla parità di genere oltre ad evidenziare la necessità di rispettare i principi di proporzionalità e ragionevolezza, nella determinazione del maggior punteggio da attribuire in relazione all’adozione di politiche volte a favorire la parità di genere.

Inoltre, con l’art. 47 del decreto legge del 31 maggio del 2021 n. 77, convertito con modifiche nella legge del 29 luglio 2021 n.108, sono descritte le disposizioni volte a favorire le pari opportunità di genere e generazionali nell’ambito delle procedure afferenti l’affidamento dei contratti pubblici, finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), con l’intento di eliminare il divario di genere e quello generazionale e che va a permeare circa 50 misure del PNRR.

Tra gli obblighi l’assunzione di una quota pari al 30% per quanto riguarda l’occupazione giovanile e una pari al 30% per quella femminile. Politiche queste che potrebbero apportare dei risultati nella riduzione del gender gap. Per quanto riguarda gli appalti però, nello schema del Nuovo Codice proposto dal Governo, non vi è più l’obbligo ma solo la facoltà di prevedere meccanismi premiali per la parità di genere e le opportunità generazionali oltre alla riduzione dell’entità delle cauzioni provvisorie, in caso di possesso della certificazione di parità di genere, dal 30 al 20% (al contrario di come veniva stabilita nell’art. 93 del decreto 50/2016). Dunque, il nuovo schema tratta comunque il tema della parità di genere ma non più in termini d’obbligo che come abbiamo visto, è prevista nell’art. 47 della disciplina Pnrr, ma in termini di facoltà. Le norme Pnrr vengono quindi stabilizzate ed estese a regime a tutti i contratti pubblici ma la norma del codice rimane facoltativa.  

Al momento, il nuovo schema è stato posto all’attenzione delle commissioni parlamentari e si dovrà attendere i prossimi mesi per capire se il Codice verrà approvato con queste modifiche o meno, in un contesto, quello italiano, in cui le norme sulla parità di genere sono più urgenti che mai.

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