Una lastra di ghiaccio che si spacca e un pinguino che rischia di andare alla deriva, lontano dai suoi simili. È questa la vicenda ripresa in un video amatoriale di pochi minuti che in poco tempo è diventato virale sul web. Lo scioglimento dei ghiacciai ha infatti reso l’habitat di molti animali inabitabile. Sono tanti i video diffusi in rete che ritraggono vari animali annegare nell’oceano o rimanere a galla su isolotti di ghiaccio, in via di scioglimento. Ma a pagarne le conseguenze non sono solo queste specie. Vi è anche l’uomo, il principale responsabile di tutto ciò.

Dalle origini: il permafrost
Quando si parla di crisi climatica inevitabilmente si introduce anche l’argomento riguardante lo scioglimento dei ghiacciai. Troppe poche volte invece si sente parlare di permafrost. Sebbene la parola sia entrata nell’uso comune da molti anni, molto spesso non si è a conoscenza del significato esatto. Per permafrost (o permagelo) si intende un tipo di terreno perennemente ghiacciato, presente nelle zone più a Nord della Terra come la Siberia, la Groenlandia o l’Alaska. Lo strato superficiale è il più sensibile ai cambiamenti climatici ma può sciogliersi nel periodo estivo. Il decongelamento dello strato più profondo invece, risale a 10mila anni fa all’epoca dell’ultima era glaciale.
Ma cosa succede se anche lo strato più profondo si decongela? Il rilascio di grosse quantità di gas metano sarebbe tra le prime conseguenze. Successivamente, le acque del decongelamento porterebbero ad un raffreddamento dei mari, andando a sconvolgere i livelli di salinità e di conseguenza distruggendo interi habitat. Le correnti oceaniche verrebbero infatti stravolte, modificando il clima di alcune zone. Il permafrost può essere dunque considerato una sorta di “termometro dei cambiamenti climatici”. 23 milioni di km2 che hanno già cominciato a sciogliersi in alcune zone.
Il pianeta sta cambiando: scenari futuri e attuali
Secondo un’analisi condotta dall’Università di Padova, la diminuzione dei ghiacciai e del permafrost sta portando ad un aumento dei rischi di frane, valanghe e inondazioni. I piccoli ghiacciai presenti in molte aree tra cui l’Europa perderanno l’80% della loro attuale massa. Il ritiro dei ghiacciai possono alterare la disponibilità e la qualità dell’acqua, andando ad influire sia sulla vita dei cittadini che su attività come quelle legate all’agricoltura o alla produzione di energia idroelettrica. Anche il livello del mare, in continuo aumento, porterebbe alla scomparsa di intere zone marittime. Allarmanti anche i risultati di uno studio condotto in Siberia da un gruppo di scienziati russi, supervisionato dal biologo Boris Kershengolts: la riduzione del permafrost ha causato il decongelamento di carcasse di animali risalenti anche a 2500 anni fa, portando alla ricomparsa di virus estinti e allo sviluppo di batteri come l’antrace. Tra le conseguenze ci potrebbero essere nuove pandemie, simili se non peggiori a quella che stiamo vivendo oggi. (fonte:wisesociety.it).
Rimediare ai propri errori: essere ambientalisti non basta
In questo quadro drammatico, molte persone si sono fatte avanti per proporre idee e rendere note al mondo i dati del cambiamento climatico. Sono numerosi i movimenti di protesta che negli anni hanno fatto sentire la propria voce chiedendo alle istituzioni di intervenire il prima possibile. In parallelo c’è chi ha optato per stili di vita più green: secondo i dati del rapporto Eurispes, in Italia oltre l’8% della popolazione ha deciso di passare ad una dieta vegana (2,4%) e vegetariana (5,8%). Nel mondo invece rappresentano 1 miliardo della popolazione totale. Secondo una ricerca dell’Osservatorio Immagino invece la vendita di prodotti ecosostenibili è salita del 22,2% con un giro d’affari di 191 milioni di euro. Nonostante ciò la scelta del singolo non può portare grossi cambiamenti se a modificare rotta non è l’intero sistema economico e sociale del mondo capitalistico. Sicuramente, adottare una dieta vegan potrebbe sottrarre l’offerta agli allevamenti intensivi. Un tipo di produzione che però è adottata anche in altri settori come quello dell’agricoltura.
La produzione intensiva: tra soia e carne
Secondo Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di inquinamento da polveri sottili (il 15% del particolato italiano-PM 2,5) preceduti solo dal riscaldamento (38%). Nel caso degli allevamenti, a incidere maggiormente è il cosiddetto PM secondario (quello prodotto in atmosfera da reazioni chimiche che coinvolgono diversi gas). Un dato che potrebbe essere sanato apportando migliorie alla catena di produzione. Il settore degli allevamenti però negli ultimi anni non ha subito alcun tipo di ammodernamento, provocando un aumento dell’inquinamento del 5% rispetto al 2000. Stiamo parlando di aziende finanziate in parte da soldi pubblici. Cifre fornite da fondi come quello della PAC (Politica Agricola Comune) associata all’UE e che secondo un report di Greenpeace, nel 2018 finanziava alcuni tra gli allevamenti più inquinanti d’Europa.
La situazione non è delle migliori neanche nel settore dell’agricoltura, dove in risposta all’aumento della domanda di determinati prodotti etichettati come green, quali la soia, molte aziende si sono adoperate per intensificare la produzione. Questo oltre al distruggere la biodiversità di un territorio, può portare a conseguenze dannose per la salute di chi abita nei dintorni, a causa dell’uso di pesticidi e agenti chimici. La coltivazione della soia è infatti il secondo driver agricolo di deforestazione, preceduto solo dall’allevamento del bestiame. In particolare, nel Sud America, queste piantagioni hanno invaso uno degli ecosistemi più a rischio, ovvero la foresta Amazzonica (fonte: wired.it).
Nonostante ciò sarebbe sbagliato definire la soia un cibo inquinante. Questa particolare pianta come molte altre, se prodotte in una filiera che rispetti la naturale fase di crescita dell’alimento, senza uso di pesticidi e senza allargare la produzione ad habitat non compatibili, potrebbe essere una valida alternativa al consumo di carne.
Quindi a che punto siamo?
Recentemente, l’Ue ha etichettato come green, fonti di energia quali il gas naturale e il nucleare. Una decisione considerata dai funzionari della Commissione Europea come “pragmatica e realistica”. L’obiettivo è la transizione verso il cosiddetto “net zero” fissato per il 2050. Un traguardo che stando al parere degli esperti, non potrà essere raggiunto senza il nucleare e il gas già da ora. Due fonti queste inserite nell’elenco delle attività economiche sostenibili (tassonomia) dopo l’analisi di sei attività (tre nucleari e tre a gas naturale) identificate come tali. Ovviamente sono stati inseriti dei criteri per limitarne la produzione. Nel caso del gas naturale ad esempio, l’impianto deve utilizzare almeno il 30% di gas rinnovabili a basse emissioni di carbonio a partire dal primo gennaio 2026 e il 55% dal primo gennaio 2030. Per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti radioattivi invece quello geologico profondo rappresenta la soluzione all’avanguardia più accettata tra i maggiori esperti. Una scelta questa che ha suscitato non poche reazioni avverse. Secondo Fridays for future Italia il gas fossile non può essere annoverato tra le fonti sostenibili, dato che ha un potere effetto serra fino a 80 volte la CO2 mentre per quanto riguarda il nucleare c’è l’annoso problema dello smaltimento delle scorie radioattive. Per i prossimi 5 anni, se si vuole veramente cambiare la situazione, il 95% dell’energia installata dovrà essere proveniente da fonti rinnovabili.
Dunque, la vita sul nostro pianeta è appesa ad una bilancia: da un lato si deve prestare attenzione nelle scelte che la singola persona compie ogni giorno. È possibile condurre una “vita green” ma è impossibile non inquinare del tutto. Vivere su un pianeta porta inevitabilmente al consumo di determinate risorse. Dall’altro c’è bisogno di un riassetto completo del sistema economico mondiale che attualmente è costellato da scelte troppe volte incoerenti.