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Referendum dell’8 e 9 giugno: alla scoperta dei quesiti tra quorum e dietrofront politici

Domenica 8 e lunedì 9 giugno, contestualmente ai ballottaggi relativi al primo turno delle elezioni amministrative che si svolgeranno a fine maggio, i cittadini saranno chiamati al voto su 5 quesiti referendari, 4 dei quali promossi dalla Cgil in materia di lavoro, e un ultimo relativo al tema della cittadinanza promosso da +Europa. I referendum in questione sono stati indetti a seguito di rispettive raccolte firme, pertanto dovrebbero essere sintomatici di una certa sensibilità ai temi che questi concernono, ma, prima ancora della prova del consenso, questi dovranno affrontare su tutte la prova del raggiungimento del quorum. Trattandosi di referendum abrogativi, volti cioè ad elidere delle norme già presenti nel nostro sistema, è necessario che almeno il 50%+1 degli aventi diritto al voto si rechi alle urne, altrimenti non avrà validità la posizione espressa dagli altri sul tema, in quanto, essendo lo strumento referendario un qualcosa a vocazione popolare, si ritiene che questo debba però essere per l’appunto espressione rappresentativa di quegli stessi cittadini che ne dispongono.

Concentriamoci adesso nel capire meglio su cosa verteranno questi 5 quesiti su cui chi vorrà avrà diritto di dire la propria:


1) In ordine di voto, la prima questione su cui si potranno esprimere gli elettori sarà relativa all’abrogazione della disciplina sui licenziamenti introdotta dal governo Renzi con l’ormai celeberrimo “jobs act”. Le norme in materia ad oggi prevedono che, nelle imprese con più di 15 dipendenti, i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi non abbiano più diritto al reintegro nel posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo – cioè privo di giusta causa o giustificato motivo, praticamente un licenziamento “per antipatia” – ma solo a un indennizzo economico. Questa misura, come anche altre contenute nella medesima riforma e contestate negli altri quesiti referendari, è nata cercando di favorire la “quantità” di lavoro in un la fase critica per l’occupazione nazionale, a danno però della stabilità e della qualità del lavoro creato, in quanto sicuramente incentiva le assunzioni seppur di contro “mercifica” un diritto che è
pilastro fondante della nostra Costituzione e della nostra Repubblica, poiché il datore di lavoro così facendo – solo per gli assunti dopo l’entrata in vigore della misura – può barattare il loro licenziamento illegittimo con una dazione di denaro (tipo “buonuscita”) anzi che con la reintegrazione nel posto di lavoro, com’era invece prima del jobs act e a cui i
sostenitori del “sì” auspicano di tornare.

2) Il secondo quesito referendario concerne l’abrogazione del tetto all’indennità per i licenziamenti nelle imprese con meno di 16 dipendenti: si tratta cioè di un’altra sfumatura della disciplina relativa all’estinzione del rapporto di lavoro. Con questa misura in caso di licenziamento illegittimo in imprese più piccole, vale a dire con meno di 16 dipendenti, rimarrebbe ferma la dazione economica in sostituzione della riassunzione del lavoratore, ma questa indennità ad oggi non può superare quantitativamente le 6 mensilità retributive del licenziato, mentre, se dovesse vincere il “sì”, si eliminerebbe il tetto massimo e sarebbe poi il giudice del lavoro a disporre l’indennizzo di volta in volta, che potrebbe così essere tanto inferiore quanto superiore al precedente tetto.

3) Il terzo voto che saranno chiamati a esprimere gli aventi diritto è quello relativo all’abrogazione di norme, sempre contenute nel jobs act, che consentono di stipulare contratti di lavoro a termine fino a 12 mesi senza le cosiddette “causali”, cioè senza delle giustificazioni sul perché quel contratto debba essere stipulato con una durata e non a tempo indeterminato: laddove vincesse il “sì” tornerebbe in vigore l’obbligo per le aziende di indicare il motivo per cui stanno facendo ricorso a lavoratori temporanei.

4) L’ultimo dei referendum promossi dalla Cgil è relativo all’abrogazione di norme in materia di appalti che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Ciò significa che, ad oggi, il vincitore di una gara d’appalto che legittimamente subappalta la realizzazione di un’opera ad un’altra impresa non può poi essere chiamato a rispondere per l’infortunio sul lavoro accaduto ad un lavoratore dell’impresa subappaltata. Questa regola, introdotta come una norma di buon senso, vuole sgravare da un’onerosa responsabilità l’impresa appaltante, che altrimenti risponderebbe di un controllo che concretamente non può esercitare, ma viene contestata per via di una sicurezza sul lavoro sempre più di bassa lega, che vede piovere infortuni e morti, e che così amplierebbe le “tutele” previste per gli infortunati, i quali avrebbero più soggetti su cui rifarsi, e, di conseguenza, un maggiore patrimonio disposto a soddisfarli, onde evitare oltre al danno – a volte fatale – anche la beffa del mancato risarcimento.


5) Infine, si potrà votare il referendum proposto da +Europa relativo ai criteri per ottenere la cittadinanza italiana: se dovesse vincere il sì, gli anni di residenza in Italia necessari a richiedere l’ottenimento della cittadinanza scenderebbero da 10 a 5, senza modificare altri requisiti richiesti come la conoscenza della lingua italiana. Sul tema, tra le tante sfumature di assennato grigio, si scontrano due opposte correnti populiste, l’una che promuove questo “taglio” come se essere cittadini italiani fosse un requisito di vitale importanza senza il quale si vivrebbe come esuli d’altri tempi, l’altra – parimenti becera – che parla di “regalare la cittadinanza” con un tono di disprezzo che mal cela rigurgiti simili alle teorie della sostituzione etnica.


Ai referendum si potrà votare per corrispondenza, e potrà farlo anche chi è temporaneamente residente all’estero o gli studenti e i lavoratori “fuorisede”, il che, pur sembrando scontato, rappresenta un importante conquista di ciò che dovrebbe essere un diritto e che invece riscontra il suo unico precedente nella Nostra storia nelle scorse elezioni europee.

Sul piano politico, intanto, Renzi sfida la Cgil: “vado a votare. Sul Jobs act voteremo no, sulla cittadinanza sì. Penso che il quorum non si farà neanche col binocolo, ma sono pronto a confrontarmi con Landini” ha dichiarato l’ex premier, che di referendum se ne intende e che si ritrova nemico giurato di un sindacato che oggi lo contrasta, ma che non era altrettanto critico nei suoi confronti quando era al potere e promulgava proprio le misure oggetto del referendum, misure che erano peraltro sostenute anche dal PD, che, salvo il cambio nella leadership, è composto dagli stessi che votarono convintamente le riforme sul lavoro e che oggi sgomitano per intestarsi il referendum che le contesta: non è buffo invitare gli elettori ad andare a votare per farsi contestare quanto fatto? Dov’è finita la responsabilità politica?


Nel frattempo, il centrodestra sceglie di disertare le urne onde evitare di contribuire al raggiungimento del quorum, il M5S dà indicazione di voto favorevole ai 4 quesiti sul lavoro lasciando però cadere quello sulla cittadinanza, mentre dalle parti del Nazareno si trova la vera sponda politica dei referendum, con Elly Schlein – l’unica che può metterci la faccia – convinta sostenitrice dei 5 sì.

Dunque, ci si avvia verso una tornata elettorale che farà discutere ancora una volta rispetto all’efficacia dello strumento referendario. Viene da chiedersi ormai quanto questo mezzo sia davvero utile al funzionamento del sistema democratico e quanto invece venga ormai relegato a bandierina pronta per essere sventolata in nome di una democrazia rappresentativa in cui la rappresentanza è sempre più spesso tradita. Il quorum ormai è un miraggio, una soglia raggiunta solo una volta negli ultimi 30 anni, e che per inciso non si sarebbe neanche raggiunto alle ultime elezioni europee, stante un mortificante distacco tra gli elettori e la politica che si riverbera in un astensionismo da far piangere.

Proprio sul tema del quorum c’è già chi urla al complotto: i referendum non sono “pubblicizzati” e la data è scelta ad hoc per affossarli. Fa tutto parte di un copione già visto, prima si scarica la responsabilità sull’elettore acquisendo il passe-partout dell’essersi prodigato per farlo contare (quando invece è proprio l’elettore che, con il suo voto, ha scelto di far decidere qualcuno in suo nome e per suo conto), e poi, laddove il referendum non dovesse passare, ci si prepara a contestare l’organizzazione burocratica che l’ha osteggiato. Rimane però un fatto, per cui al di là della troppo facile ricerca di scuse da parte di micro- partiti e organizzazioni di ogni tipo che farebbero meglio a fare una bell’analisi della sconfitta piuttosto che cercare sempre un capro espiatorio, sicuramente il raggiungimento del quorum sarebbe stato più facile accorpando il voto alla prima tornata amministrativa, quella di fine maggio, e non in un turno di ballottaggio che, com’è ben noto ormai da anni, viene quasi sempre disertato, al punto che il Presidente La Russa aveva addirittura proposto di abolirlo per questo stesso motivo.

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