Site icon 2duerighe

Il Flaminio che non ho vissuto

Podcast, foto, reel, copy lunghissimi e chi più ne ha, più ne metta. Quando agli amanti del calcio capita sotto gli occhi qualcosa che parla degli stadi inglesi, specie quelli storici o con particolari “di nicchia”, non possono fare a meno di fermarsi e immergersi nella lettura. In Italia siamo divisi tra volere lo stadio di proprietà e il fascino delle vecchie strutture sportive in disuso, Roma e il suo stadio Flaminio ne sono un esempio tangibile.
 

Abituati allo stadio Olimpico, quando si passa vicino alla struttura del Flaminio c’è quasi sempre quella vena di curiosità e un inspiegabile senso di nostalgia. È strano provare nostalgia per qualcosa che non hai mai vissuto davvero, dove non hai mai supportato la tua squadra su quelle gradinate, osservare quelle gradinate fa strano. Vuote ma sincere custodi di ricordi altrui e allo stesso tempo illogicamente anche miei.

La mia generazione, quella nata negli anni ’80, del Flaminio si è goduta a malapena la sua seconda vita: quella del rugby. Non abbiamo mai visto, o davvero ne abbiam viste poche,  partite di massima serie lì dentro, delle Olimpiadi del ’60 inutile parlarne. 

“Era un gioiello,” sentiamo dire da chi l’ha vissuto, “un posto dove lo sport si univa all’arte.” Si racconta di quella pensilina che sembrava sfidare la gravità, opera di quel genio di Nervi che aveva dato a Roma un pezzo di futuro.  

I miei ricordi veri del Flaminio sono più recenti, più sfumati, meno belli probabilmente: qualche partita di rugby, anni 2000. Non tifavo la mia squadra, non c’erano cori, né coreografie, inutile girarci intorno… non c’era semplicemente il calcio. Ricordo di aver guardato più l’architettura che il campo, cercando di immaginare come doveva e poteva essere quello stadio magari durante un derby.

E ora? Ora lo vedo abbandonato mentre ci passo davanti magari per andare o tornare dall’Olimpico, lo stadio della mia generazione. Mi è capitato di sentirmi chiedere, da colleghi in trasferta per un match di coppa europea, cosa fosse il Flaminio. Mi sono sorpreso a raccontare loro storie che non erano nemmeno le mie, ma che ho ereditato da altri tifosi, nemmeno della mia squadra, come si ereditano i geni o i tratti del viso. Gli ho parlato di Nervi, delle Olimpiadi, del rugby, come se avessi vissuto tutto in prima persona.

C’è qualcosa di profondamente romano in questo tipo di nostalgia. Viviamo in una città dove ogni pietra racconta millenni di storia, dove il passato e il presente si intrecciano continuamente, dove il ricambio generazionale è automatico. Forse è per questo che posso sentire nostalgia per un Flaminio che non ho mai conosciuto davvero: perché fa parte delle arterie di questa città.

Quando leggo sui giornali di possibili progetti di recupero, mi emoziono più di quanto sia ragionevole. Immagino come sarebbe vedere una partita lì dentro, sedermi sulle stesse gradinate dove sedeva la stessa persona che in fila al tornello all’Olimpico ingannava l’attesa dell’entrata con i suoi racconti. 

Chiudere un cerchio che non sapevo nemmeno di aver iniziato a disegnare.

Mi piace pensare che un giorno il Flaminio tornerà a vivere. Non come un museo o un monumento al passato, ma come uno spazio vivo, pieno di voci e di passioni. Uno spazio dove anche io potrò finalmente creare i miei ricordi.

Exit mobile version