Per le vie che nessuno sa di Annarosa Tonin, edito Affiori, è un romanzo di rara delicatezza che si muove sul crinale della memoria, della marginalità e della cura, attraversando con passo lieve ma deciso i territori dell’introspezione, della nostalgia e della denuncia sociale. L’opera di Annarosa Tonin non è un romanzo nel senso tradizionale del termine: non vi è una trama lineare, un conflitto centrale, un’evoluzione degli eventi secondo un arco narrativo convenzionale. Piuttosto, ci troviamo immersi in una partitura letteraria che assomiglia più a un quartetto da camera – non a caso il Quartetto delle dissonanze di Mozart viene evocato già nel prologo – che a una narrazione di genere.
La protagonista, o meglio la figura attorno a cui ruotano memorie e narrazioni, è Cosima Castaldi, un’anziana signora affetta dal morbo di Alzheimer il cui universo fatto di bellezza, arte, memoria e resistenza civile viene progressivamente smantellato e dimenticato. È la sua dama consolatrice, Ghita Pasini, a raccogliere la voce spezzata di Cosima e a trasportarla attraverso i meandri della vicenda, come una narratrice onniscente fuori dal tempo. La stanza numero 39 della residenza sanitaria in cui Cosima è rinchiusa diventa così teatro di una confessione sommessa, ma instancabile che si svolge nell’arco di tre giorni durante i quali Ghita medita un commiato, non solo da Cosima, ma da una città e da un tempo che l’hanno smarrita.
La piccola città, mai nominata, ma perfettamente riconoscibile nella sua fisionomia archetipica di luogo di provincia intriso di meschinità, trasformazioni speculative e memoria rimossa, è il secondo grande personaggio del romanzo. La sua metamorfosi, da comunità viva e solidale a spazio di cinismo e disaffezione, è raccontata attraverso la storia del palazzo Castaldi, dei suoi giardini, dei concerti domenicali, delle lezioni di disegno per i bambini, delle rose bianche alle finestre. È il simbolo di una bellezza resistente, negletta, poi sfrattata e infine trasformata in simulacro turistico o pretesto per “esperienze uniche” promosse da amministrazioni miopi.
La prosa è sontuosa, raffinata, fortemente evocativa, ricca di immagini, echi, sovrapposizioni; il periodare è spesso lungo, avvolgente, come fili di un ricamo che si dispiega pazientemente sotto gli occhi del lettore. Il tempo narrativo si frantuma in riverberi, riflessi, flashback e silenzi. Ogni oggetto – un cuscino logoro, una candela consumata, una bambola senza scarpe – è carico di significato, come nei quadri simbolisti o nelle stanze della memoria proustiana. Le voci dei personaggi si alternano spesso senza preavviso e le scene si aprono come stanze: ci si entra attraverso un dettaglio sensoriale, un gesto, un colore, una frase rubata al tempo. Il ritmo è lento, contemplativo e punta tutto sulla suggestione più che sull’intreccio eppure il romanzo è percorso da una tensione etica fortissima, ma mai gridata. L’autrice ci invita a riflettere sul destino degli anziani, sullo svuotamento dei legami comunitari, sulla precarietà delle identità urbane e personali, sull’urgenza di custodire, invece che abbandonare. I temi della cura, dell’esilio interiore, del diritto a essere visti e riconosciuti anche quando la coscienza vacilla, sono centrali; tuttavia, non si tratta di un’opera vittimistica: vi è anche una leggerezza ironica, una capacità di svelare il grottesco e il ridicolo che permeano la società del presente, senza perdere la tenerezza per chi resiste.
Accanto a Cosima e Ghita incontriamo figure che, pur abbozzate, si stagliano con forza simbolica: Duilio Fadda, il marmista che parla col marmo più che con gli uomini; Brenno Dalla Porta, detto il Dissenziente, voce radiofonica anarchica e appassionata; Alberto Zuliani, il Selezionatore, teatrante fallito e visionario; Enea Renier, bambino prima e fornaio poi, custode silenzioso di un’eredità dolce fatta di Castaldini, biscotti di pasta frolla e mandorle che sanno di rosa e memoria. E infine, ultima, ma non per importanza, c’è Bianca Curtò, figura indimenticabile, ospite della residenza, che trascorre le giornate in carrozzina con il suo specchietto e la sua borsetta rossa. Bianca è un’ombra silenziosa che resiste nella propria alienazione, che canta quando l’ascensore suona e che, come Cosima, chiede compagnia senza parole, con gesti ripetitivi e sguardi smarriti.
È il simbolo di un’umanità fragile che sopravvive ai margini, invisibile agli occhi distratti del mondo, ma che nel romanzo trova ascolto, spazio e dignità. Persino il suo nome viene rivelato con garbo, quasi fosse un segreto che merita di essere protetto.
Nessuno è un semplice comprimario: ciascuno è un riflesso dell’interrogativo centrale del romanzo, ovvero come si possa restare umani in un mondo che ha smarrito il senso dell’umano.
I pochi elementi di debolezza, che pur si avvertono, risiedono principalmente in una certa ripetitività di alcune immagini e simboli (le vie che nessuno sa, le anfore verdi, il sipario che non si apre, le lucciole, i tetti…), nonché in una struttura che richiede una lettura attenta, a tratti persino faticosa; tuttavia, è una fatica felice quella che chiede Per le vie che nessuno sa, perché il lettore diventa custode attivo della storia, diventa anche lui “dama consolatrice” di un testo che non cerca il facile consenso, ma il risveglio del pensiero e del sentimento.
Per le vie che nessuno sa è un’opera meditativa e intensa che affida alla parola scritta un compito sacro: quello di non lasciar morire ciò che merita memoria. Un libro che non si legge, si vive. E che, come Cosima, anche quando dimentica, continua a indicare una direzione: quella del cuore, del rispetto e di una bellezza che resiste.
“Per le vie che nessuno sa” di A. Tonin
