A Charlie, a mio nonno e alla mia mamma
A ottobre 2024 La nave di Teseo pubblica l’autobiografia di Al Pacino dal titolo inglese Sonny Boy, edito dalla casa editrice Century, con la traduzione italiana di Alberto Pezzotta.

Il libro si compone di 14 capitoli, 14 titoli e plot twist che accompagnano il lettore all’interno del viaggio che condurrà l’autore alla sua ascesa nell’olimpo del cinema.
Ed è attraverso note ironiche, tragiche, talvolta provvidenziali legate ai punti cardinali della sua sfera affettiva e professionale, che l’autore disegna un autoritratto di sé a tutto tondo: imperfetto, palpabile, epico e prodigioso. Un condensato di diverse vite, vissute tra strade, palcoscenici e set.
Un filo d’erba
L’essenza del primo capitolo, nominato, appunto, Un filo d’erba, è racchiusa nell’excursus che ripercorre le umili origini di Alfredo James Pacino, nella crudità di un’infanzia vissuta nel South Bronx. Un fil rouge, questo, che percorrerà l’intero memoir e che si incarnerà nell’inevitabile e costante dialogo con il passato che ha dato forma al carattere di Al, bambino e uomo.
Nato da genitori di origini siciliane che si separano due anni dopo la sua nascita, l’autore racconta come i nonni materni abbiano rappresentato un punto fermo nella sua vita, messa a dura prova anche dall’instabilità psichica della madre.
Al contempo si viene a conoscenza di un passato epico, fatto di giochi in strada e di fughe sui tetti dei caseggiati con i compagni, Cliffy, Bruce e Petey; ma anche di finali spesso tragici come quelli che hanno travolto i suoi amici d’infanzia, morti giovanissimi per overdose, o sua madre.
Eppure, saranno queste esperienze, queste situazioni-limite, che daranno senso all’aneddoto dell’equilibrista che continua a esibirsi senza reti di protezione dopo aver visto la propria famiglia riportare ferite mortali in seguito a un incidente sulla corda. Lo stesso, alla domanda perché lo facesse, rispondeva: «Perché la vita è sul filo. Il resto è attesa» (Sonny boy. Un’autobiografia, p. 52).
E così si riassume anche il valore della recitazione per Al: un appetito, un desiderio, un bisogno di esprimersi e diventare parte di qualcosa di più grande, universale, affidandosi a un talento descritto da Lee Strasberg come «un filo d’erba che spunta da una spianata di cemento» (Sonny boy. Un’autobiografia, p. 21).
Immagine, questa, affine a quella usata dal poeta Walt Whitman per indicare quel sentimento di vicinanza che lega tutti gli esseri umani, uguali per natura come Leaves of Grass.
«Conformista selvaggio»
Il lettore viene trascinato all’interno della narrazione, coinvolto negli eventi che prendono piede, nei dilemmi che accompagnavano ogni scelta vissuta “sul filo” assecondando quel talento che però non dava abbastanza da mangiare. «Dopotutto», riferisce traducendo i pensieri della madre, «eravamo poveri e i poveri non recitano» (Sonny boy. Un’autobiografia, p. 40).
L’autore parla di figure che lo hanno incoraggiato, a partire dalla sua insegnante delle scuole medie, Blanche Rothstein, la quale decise un giorno di salire i cinque piani di caseggiato per avvertire la madre e la nonna di Al: «Questo ragazzo deve continuare a recitare. È il suo futuro» (Sonny boy. Un’autobiografia, p. 40). Ma sarà l’anarchia di fondo, il suo essere un «conformista selvaggio» a far sì che non perda mai di vista l’obiettivo:
«Sapevo che dopo non dovevo più preoccuparmi se mangiavo o non mangiavo, se facevo soldi o non ne facevo, se ero famoso oppure no. La vera fortuna, in questo mestiere, è non farci caso. E vedevo aprirsi una porta: non conduceva a una carriera, al successo o alla ricchezza, ma allo spirito vivente dell’energia. Mi era stata concessa l’opportunità di guardare dentro me stesso, e non potevo fare altro se non dire: voglio fare questo per sempre» (Sonny boy. Un’autobiografia, p. 71).
In seguito all’esperienza di formazione presso l’Actors Studio, in cui comincia a confrontarsi con le tragedie di Shakespeare, e ai riconoscimenti ottenuti portando in scena pièce teatrali, come L’indiano vuole il Bronx e Le tigri portano la cravatta?, entra in contatto con le personalità che daranno vita al suo destino, primi fra tutti, Francis Ford Coppola e Brian De Palma.
«Don’t try»
Al Pacino permette al lettore di entrare all’interno di una dinamica estremamente intima intrattenuta con la propria arte. A poco a poco, e sempre di più, ci si rende conto di come non sia stato nient’altro che il teatro a tenere viva la fiamma, la sua verve, anche durante la sua lunga e fortunata carriera cinematografica. Teatro in quanto epifania, in quanto prisma in grado di trasformare tutto ciò che gli arriva in energia; teatro, che diversamente dal cinema, lo induce a camminare sul filo a dieci metri d’altezza e senza protezioni:
«La differenza tra recitare in un film e recitare su un palcoscenico è che nel primo caso la famosa corda di cui ho già parlato si trova sul pavimento: puoi sempre rifare tutto da capo e provare qualcos’altro. A teatro, invece, reciti su una corda sospesa a dieci metri da terra. E se sbagli, cadi. C’è una bella differenza di adrenalina» (Sonny boy. Un’autobiografia, pp. 103-104).
Questa la vera palestra e la grande sfida: guardarsi dentro, cercare il posto preciso, il luogo in cui abita il personaggio che si sta per interpretare, farlo vivere e lasciarlo esprimere in sinergia con le reazioni del pubblico, che, a teatro, si comporta come una cartina al tornasole, immediata e senza filtri.
Alla domanda rivolta da un aspirante attore sul perché non ce l’avesse fatta a differenza sua, Al Pacino risponde: «Perché tu volevi. Io dovevo» (Sonny boy. Un’autobiografia, p. 53). Non si trattava dunque di scelta, né di “provare”, ma di farlo. In fondo, «Se il matto persistesse nella sua follia, andrebbe incontro alla saggezza» (Sonny boy. Un’autobiografia, p. 294).
Link al libro: Al Pacino, Sonny Boy. Un’autobiografia, La nave di Teseo, Milano, 2024.