2duerighe

“Vento di terra”: profumi, storia e dolori dell’Istria

I profumi del Mediterraneo soffiano sulla penisola d’Istria. La malvasia, la salvia, gli olivi, cinguettano al viaggiatore che percorre, viandante, le strade istriane, dall’entroterra alla costa. Terra di limes, l’Istria riporta sulla sua pelle confini come cicatrici: le sofferenze del secolo breve.

Le navi veneziane che solcano i mari adriatici e sfidano la potenza ottomana, in lontananza il porto di Trieste, centro della cultura Mitteleuropea, gloria marittima dell’Impero Austro-Ungarico, oltre la Fiume di D’Annunzio e la Dalmazia, al di là si il mondo dinarico e balcanico. L’Istria è profumo, dolore e storia.

Venezia, Roma, Belgrado, Lubiana e Zagabria, ombre di dominatori, d’imperi e di politici, come un domino infinito, si susseguono, cadendo, nel sogno di conquista della bella Istria. Lo spirito delle pietre istriane resiste nell’entroterra, nella terra che racconta miti e leggende di argonauti, di un rapporto viscerale con il Mediterraneo, dove la lingua veneta si mescola con il dialetto croato. È la magia, la suggestione di forze naturali dimenticate, lì dove la pietra carsica incontra l’arenaria, e le profondità della terra sembrano aprirsi come tagli di coltello.

La cancellazione colpisce la costa. Il sogno della diversità comunista titina si riflette su Capodistria, porto, della grandeur di Belgrado, pensato come alternativa a Trieste e poi divenuto terra slovena privo di accesso alle acque internazionali.  Il turismo di massa ha cambiato forma alla linea costiera e i ricchi delle privatizzazioni post Tito hanno costruite nuove, sgargianti ville sul mare, prendendo il posto dei principini della nomenklatura di regime.

Le comunità istriano-venete e croate, unite al di là di una cesura nazionale, si ritrovano insieme contro la cancellazione di una specificità autoctona d’Istria che rivendica la sua autonoma rispetto a velleitari progetti di dominazione culturale e politica esterni. Paolo Rumiz, narratore d’eccellenza, interroga e racconta nel suo reportage “vento di terra”, edito da Bee, il volto dell’autocoscienza della piccola penisola in piena guerra dei Balcani.


Sono le pietre dei sentieri che si snodano dal mare all’entroterra a raccontare una storia che rischia di essere dimenticata. Non un’appartenenza nazionale ma geografica, il genius loci minacciato dalle migrazioni spinte e favorite per opportunismo da centri della politica lontani dallo spirito mediterraneo, da affaristi interessati al business del turismo di massa e masnade teutoniche di sandali con calze canute. Il legame con la terra e le sue radici è definito, in Istria, dalle genti slave zavicaj, “il riconoscersi nelle vecchie pietre”.

Una miopia che affligge anche, storicamente, la stessa politica italiana nel suo spettro più ampio. Da un lato le forze progressiste che, complice assonanze politiche dell’eredità della guerra fredda, hanno preferito dimenticare la questione del Confine Orientale, interpretando la perdita dell’Istria come la dissoluzione di un dominio ai limiti del colonialismo. Dall’altra le formazioni dell’ala destra le quali hanno spinto per il riconoscimento pubblico della tragedia delle foibe ma guardando con sospetto coloro che erano rimasti su quelle terre dopo il dramma degli esuli giuliano-dalmati. Rivendicazioni e annunci che hanno danneggiato, isolando la comunità istriano-veneta, più che sostenerla con reali aiuti economici e con più forti legami istituzionali.

“L’Istria eterna non molla. Il profumo rimane. L’Istria è il suo profumo”.

Exit mobile version