di Lorenzo Ettorre
Scrivere dinanzi alle drammatiche notizie provenienti dal Giappone è difficile. Si resta impietriti nell’assistere inermi agli effetti devastanti del terremoto. L’unica reazione adeguata pare essere il silenzio. Ciò che sembrava impossibile e impensabile è diventato d’un tratto possibile e paurosamente reale, fino all’ecatombe provocata dallo tsunami che ha trascinato con sé uomini, automobili, ponti, strade, case, quasi fossero gingilli. Come non bastasse, la tremenda paura di un disastro nucleare: se accadesse, renderebbe davvero biblici gli effetti complessivi del terremoto.
Ma dentro tutto il dramma, è necessario fermarsi un istante e guardare! Cogliere in atto la reazione che suscita vedere il mare “mangiarsi” l’uomo e tutte le sue opere.
Non ci si può sottrarre. Si avverte immediatamente la nostra piccolezza, il nostro “niente” in paragone alla potenza della natura, spesso tenera madre a volte terribile matrigna. Un senso di sproporzione inaudita ci avvolge l’animo, la mente, il cuore. Anni di duro lavoro e immani fatiche per costruire, e soltanto un secondo – un semplicissimo, banalissimo, stupidissimo secondo – per distruggere. Una considerazione che si fa più pungente se pensiamo che stiamo parlando del Giappone, cioè di uno dei luoghi in cui l’umanità è più forte e progredita, e non di Haiti o dell’Africa. Forte, progredita, eppure terribilmente in ginocchio. Chi di noi non ha pensato ai castelli di sabbia che facevamo da bambini davanti all’ira funesta del mare mangiatore? Ed è in questi momenti che sobbalzano nel petto le domande più vere, quelle che per noia, paura o superficialità non ci poniamo (quasi) mai durante il nostro tenero e disperato galleggiamento quotidiano: su cosa sto fondando la mia esistenza? Su cosa sto puntando per raggiungere la felicità? Se tutto crollasse, cosa resterebbe?
Eppure proprio in questa nostra piccolezza c’è racchiuso tutto il germe della nostra grandezza. Sembra un paradosso, forse lo è. Ma è proprio quando ci è tolta ogni crosta di presunzione, proprio quando ci si scopre piccoli e bisognosi, proprio quando il nostro umano tentativo di creare e perdurare – giusto e legittimo, ma povero e inerme – miseramente fallisce, proprio allora si leva possente la domanda che venga un Altro e ci salvi. Ci salvi dal nulla a cui saremmo altrimenti destinati. Una domanda di totalità, di senso, di significato, di bene, una domanda di un rapporto d’amore che veramente sorregga la vita rendendola non più l’esito di una fumosa casualità ma un disegno buono e misteriosamente grande. Cos’altro è il “limite” se non accorgersi che non siamo in grado di darci da soli tutto questo, pur cosi intimamente desiderato? Questa è la domanda che ognuno di noi avverte come adeguata alla propria statura di uomo. E questo è ciò che è venuto a fare Cristo facendosi uomo come noi: compiere ciò che altrimenti resterebbe incompiuto. Per sempre.
Il disastro che si sta consumando in Giappone non può restare fine a se stesso, non può lasciarci come ci ha trovati, specie fra un po’ quando i media non ne parleranno più. Né può lasciarci soltanto più soli, cinici o indifferenti, al massimo con qualche lacrimuccia in più. Deve poterci mettere in moto, deve poter penetrare fin nelle fibre più intime del nostro essere, deve scrollarci con forza e decisione e renderci meno frivoli e superficiali. Possiamo fare poco per i giapponesi, è vero. Ma vivere a fondo e da uomini questo dramma, forse, è un inizio confortante.