di Federico Cirillo
Il 2 giugno del 1981 si spegneva tragicamente, ma ancora viva aleggia la sua forte personalità, tutta espressa in quel talento di saper scrivere canzoni e testi che interpretavano a pennello, quasi a mo di specchio, la realtà italiana degli anni ’70 con tutte le sue contraddizioni, da lui magistralmente ritratte e riportare in note. Note dalle quali, con sorprendente realismo e disillusione, vien fuori, ancora, la nostra Italia contemporanea, afflitta da antiche piaghe che “il folletto” Rino aveva già visto, descritto e deriso. Un folletto si, un mito mai spentosi, neanche dopo quel tragico incidente, ma che, anzi, si è andato sempre più rinnovando di generazione in generazione e che rimane, tutt’ora, testimone di ogni contestazione, di ogni piccola o grande rivoluzione, proprio come volevano essere e furono le sue canzoni. “C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio. Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni”, eccolo Rino e da queste parole, espresse prima di un concerto nel 1974, vien fuori tutta l’originalità che lo contraddistingueva. Nell’ironia affondava tutto il suo spirito anarchico, nel nonsense abbeverava la sua poesia, schiaffeggiando quegli intellettuali che da lui ben correvano a prender le distanze, nascondendo il capo da quella realtà che Rino ben sapeva mettere a nudo: e intessendo le fila della Berta o seguendo la storia dell’Aida, raccogliendo le sfiorite viole, tra le psichedeliche trame del blu asfalto di una surrealistica Khatmandu, ne risultava un nudo ancor più spoglio e mesto di un’Italia vestita solo di slogan e retorica.