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Giappone: 5,5 milioni di dollari per una Siria che prova a rinascere

Ad Aleppo, il rumore dei martelli che battono sul ferro si mescola ogni giorno al canto del muezzin. In effetti, se si considera una città tanto duramente provata, dove le case hanno perso i tetti e le strade si sono trasformate in cumuli di macerie, la ricostruzione non può essere più un sogno o un desiderio ma è un bisogno urgente ed estremamente concreto.

Proprio qui, e a Homs, arriva un segnale inatteso: il governo giapponese ha deciso di destinare 5,5 milioni di dollari a un progetto delle Nazioni Unite per migliorare la vita quotidiana negli insediamenti informali. Non si parla solo di cemento e tubature, ma della possibilità concreta di restituire dignità a chi è tornato dopo anni di fuga.

Aleppo e Homs sono due nomi che il mondo ha imparato a conoscere come simboli del conflitto siriano. Quartieri interi rasi al suolo, piazze un tempo animate ridotte al silenzio, scuole trasformate in ruderi. Eppure la gente è tornata. C’è chi è rientrato dall’estero con in mano pochi bagagli e il ricordo di una vita che non c’è più. C’è chi non ha mai abbandonato la propria via, convinto che prima o poi la normalità avrebbe bussato di nuovo alla porta.

Oggi però la normalità resta lontana: manca l’acqua, manca la corrente, le strade si allagano alla prima pioggia. Vivere significa arrangiarsi. Ed è proprio qui che il contributo giapponese potrà fare la differenza.

Il piano, che durerà due anni, non vuole calare soluzioni dall’alto. L’idea è coinvolgere direttamente gli abitanti: ascoltare le loro priorità, capire come ricucire i quartieri pezzo dopo pezzo. Non è solo un lavoro tecnico: è un processo di fiducia.

Si parla di riattivare reti idriche e fognarie, sistemare la viabilità, ripristinare la luce pubblica. Ma anche di restituire valore agli spazi condivisi: una piazza, un giardino, un marciapiede possono diventare luoghi in cui ricominciare a vivere insieme.

Dietro alle cifre ufficiali, oltre 81.000 persone coinvolte, ci sono volti concreti. La famiglia che rientra in una casa senza porte, i bambini che giocano in mezzo alla polvere, l’anziana che aspetta l’acqua dal camion cisterna. A loro, un lampione acceso non sembra un dettaglio, ma un segnale che la vita sta davvero tornando.

Prima del conflitto, quasi quattro siriani su dieci vivevano in quartieri informali. Dopo anni di bombardamenti e di terremoti, quelle stesse zone sono diventate l’unico rifugio possibile. Ricostruirle significa non solo garantire un tetto, ma ridare senso all’idea stessa di comunità.

Tokyo non è nuova a questo tipo di sostegno. Negli ultimi anni ha investito più di 20 milioni di dollari in programmi simili. Ma c’è qualcosa di più: il Giappone sa cosa significa rinascere dalle macerie. Hiroshima, Nagasaki, i terremoti che hanno colpito l’arcipelago. Forse anche per questo la sua solidarietà verso la Siria non è solo diplomatica, ma quasi empatica.

La firma dell’accordo, avvenuta a Nairobi, non è passata inosservata: un atto che racconta di un Paese lontano geograficamente, ma vicino nella volontà di aiutare chi oggi fatica a rialzarsi.

Naturalmente 5,5 milioni di dollari non possono bastare. La Siria è ancora un Paese dove più di 16 milioni di persone dipendono dall’aiuto umanitario. Ma a volte non è la quantità che conta, bensì il segnale. Ogni strada asfaltata, ogni rubinetto riparato, ogni spazio comune restituito agli abitanti diventa un invito a restare, a credere che ricominciare sia possibile.

In fondo, la ricostruzione non è mai fatta solo di calcestruzzo. È fatta di piccoli gesti che restituiscono fiducia. È un bambino che rientra a scuola lungo una via finalmente pulita. È una madre che apre il rubinetto senza temere di trovare solo aria. È un anziano che, seduto davanti alla sua porta, vede di nuovo la strada illuminata.

Ecco cosa può significare quella donazione giapponese: non solo denaro, ma una luce accesa nel buio. Una promessa di futuro in un Paese che, nonostante tutto, non ha smesso di sperare.

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