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Tutti gli uomini-voci maschili si raccontano per cambiare: intervista a Irene Facheris

Tutti gli uomini. Un podcast di Irene Facheris. Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=QEO6QEdvGWY&ab_channel=IreneFacheris

Tutti gli uomini-voci maschili si raccontano per cambiare è un podcast di Irene Facheris. In questo podcast gli uomini sono i veri protagonisti. La voce di Irene Facheris si limita a parlare brevemente a inizio puntata per introdurre la domanda che guiderà l’intero episodio e a fine puntata per riavvolgere il nastro e trarre qualche conclusione sulla base di ciò che le testimonianze hanno lasciato emergere. Questo podcast appare uno strumento prezioso per lo spazio di condivisione che crea, all’interno del quale gli uomini possono permettersi di esprimersi come non sono abituati a fare, cioè parlando del proprio vissuto, delle proprie emozioni, di sé stessi, al di là e al di fuori dei condizionamenti e degli stereotipi della mascolinità tossica a cui spesso vengono relegati.

Ho avuto il piacere di intervistare Irene Facheris, che, per chi non la conoscesse, è una formatrice, scrittrice, podcaster e attivista femminista. È laureata in Psicologia dei Processi Sociali, Decisionali e dei Comportamenti Economici presso l’Università degli Studi di Milano – Bicocca, con una formazione universitaria orientata sui gender studies. È presidente dell’associazione no profit Bossy, nata nel 2014, una comunità di divulgazione e proposte d’azione su tematiche quali stereotipi di genere, sessismo, femminismo e diritti LGBTQ+. Nel 2016 ha creato la videorubrica Parità in Pillole su YouTube, che è andata avanti fino alla fine del 2019. È autrice di tre libri: Creiamo Cultura Insieme: 10 cose da sapere prima di iniziare una discussione per Tlon Edizioni; Parità in pillole. Impara a combattere le piccole e grandi discriminazioni quotidiane per Rizzoli e Noi c’eravamo. Il senso di fare attivismo, sempre per Rizzoli. Quattro podcast all’attivo: Coming out: storie che vogliono uscire ed Equalitalk su Audible; Lenti femministe: uno sguardo di genere sul mondo in esclusiva per Patreon e Palinsesto Femminista su Spotify.

Palinsesto Femminista era in nomination nell’edizione 2024 dei Diversity Media Award. Diversity è una Fondazione nata nel 2022 impegnata nel diffondere la cultura dell’inclusione, che favorisce la molteplicità e le differenze come valori e risorse per la nostra società. La serata finale si è svolta il 28 maggio al Teatro Lirico di Milano. Immagino sia stato un momento importante, un riconoscimento del lavoro svolto con Palinsesto Femminista. Che sensazioni hai provato nel vedere il tuo podcast tra i finalisti?

Sì. Palinsesto Femminista era già stato candidato nel 2021, non nella categoria Miglior Podcast come quest’anno, ma nella categoria Miglior Prodotto Digital. La cosa che mi fa sempre estremamente piacere è il fatto che quelle candidature arrivino dalle persone. Palinsesto Femminista è in finale perché tanta gente ha apprezzato quel prodotto e ha ritenuto fosse valido per una nomination. Questa cosa mi inorgoglisce e mi rende felice, perché la vivo come un riconoscimento di tutto quello che è stato fatto. Nello specifico, ma questo vale per me e vale per tutte le manifestazioni di questo genere dove è previsto un vincitore, continuo a chiedermi se sia il modo più utile di far conoscere certi prodotti. Deve esserci veramente alla fine sempre un vincitore o una vincitrice? Questa è una domanda che io mi faccio e che continuo a farmi ormai da tantissimo tempo, da quando nel 2020 sono stata inserita dal Sole 24 Ore tra le 10 donne che hanno lasciato il segno e dal Corriere della Sera tra le 110 donne dell’anno. Sono tutte cose che apprezzo, ma continuo sempre a chiedermi se sia necessario arrivare ad avere chi vince, perché mi sembra che si tolga importanza a tutte le persone che stanno cercando di fare la loro parte, partecipando in modi diversi. Non smetto di farmi questa domanda negli anni.

Veniamo al podcast Tutti gli uomini-voci maschili si raccontano per cambiare. La prima domanda che ti faccio è provocatoria, o meglio ingenuamente provocatoria. In un mondo in cui gli uomini hanno microfoni, a volte megafoni, puntati addosso, attraverso i quali poter dire quello che pensano nella certezza di essere ascoltati e presi sul serio, nella certezza che le loro parole saranno considerate autorevoli, avevamo davvero bisogno di un altro spazio per far parlare gli uomini? Il femminismo dovrebbe dar voce alle donne e che fa? Dà un altro spazio di parola agli uomini?

Questa era la prima obiezione a cui mi sono preparata. Finché non ascolti il podcast, secondo me, c’è il rischio di pensarla in questo modo. Già dall’ascolto della prima puntata, capisci perché questa obiezione cade. È vero, noi siamo in una società in cui gli uomini sono ovunque, parlano ovunque e di tutto, spesso anche di cose che non gli competono. Quindi c’è il rischio di pensare: ancora? Avevamo bisogno di dargli anche questo spazio? Però… “Quando hai scoperto di esser un uomo? Quando hai scoperto che essere un uomo portava con sé una serie di privilegi? Quand’è che hai capito che era una tua responsabilità smantellare questa cultura perché ti porta dei vantaggi e sei tu il primo che deve fare un passo in avanti?” Queste domande a chi le fai se non a un uomo? È vero che questo è un podcast in cui parlano gli uomini, ma parlano dell’unica cosa di cui si solito non parlano e che è l’unica cosa che, invece, bisogna affrontare se si vuole risolvere il problema della violenza di genere, violenza maschile nei confronti delle donne. Non si può prescindere dal far ragionare gli uomini su questi temi. E non c’è altro modo: un uomo questi temi inizia ad affrontarli se li sente raccontati da un altro uomo. Questo accade perché ha meno paura del giudizio o perché a parlare è qualcuno di simile a lui. Tutte le cose che raccontano gli uomini in questo podcast nella pratica, non sono cose che chi si occupa di femminismo non conosca già in teoria. Il problema è che moltissimi uomini non ascoltano una donna raccontare queste cose, anche perché una donna le racconta da un punto di vista teorico. È molto più semplice per gli uomini, che hanno un’opinione negativa del femminismo, perché non lo conoscono, approcciarsi attraverso un altro uomo che racconta esperienze vere e vissute. Non c’è un’alternativa. Non riuscivo più ad aspettare per creare uno spazio del genere. Certo, fa specie che ancora una volta abbia dovuto pensarci una donna.

È questo un altro modo, un altro escamotage, a cui le donne devono ricorrere per mettere gli uomini nelle condizioni di porsi delle domande su loro stessi e la loro responsabilità collettiva?

Non lo definirei un escamotage, non è il cavallo di Troia che entra in città. Allo stesso tempo non mi stupisce questo dato, perché è tristemente normale che le possibili soluzioni a un problema arrivino da chi è oppresso. Nella versione “ideale” di questo podcast le domande di ogni puntata le avrebbe dovute porre un uomo, al posto mio a far le domande ci doveva essere un uomo, ma solo a fare le domande. A pensare le domande ci deve essere in ogni caso una donna, perché nessuno conosce l’oppressore meglio dell’oppresso. Il mio punto di vista di donna in una società maschilista formula domande per gli uomini a cui non può pensare un uomo. E sono quelle domande a cui bisogna trovare risposta. Se ci fosse stato un uomo al posto mio a porre quelle domande si sarebbero create naturalmente dinamiche diverse tra intervistatore e intervistato, ma questo non cambia, secondo me, il fatto che quelle domande dovevano essere pensate da donne.

Come ti è venuta l’idea di Tutti gli uomini? Qual è stata l’evoluzione di questo progetto dalla tua prima idea fino alla sua realizzazione?

L’idea è nata il 25 novembre 2023. Ero sul palco dell’Alcatraz di Milano al concerto delle Bambole di pezza, che mi avevano chiesto di fare due minuti di intervento prima di cantare una canzone insieme a loro. Era, per l’appunto, il 25 novembre, la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Essendo un concerto rock, era pieno di uomini. Sono abituata a parlare in contesti dove ci sono soprattutto moltissime donne. Quello era un contesto per me molto diverso e non volevo perdere quell’occasione unica di parlare davanti a così tanti uomini. Avevo l’occasione di parlare davanti a uomini che diversamente non mi avrebbero mai ascoltata, cioè uomini che banalmente non sarebbero mai venuti a una conferenza sul tema. Così ho iniziato il mio discorso dicendo che la cosa più inutile che possiamo dire agli uomini per sensibilizzarli sul tema della violenza contro le donne è esattamente quella che diciamo tutte le volte: pensa se fosse tua sorella? Pensa se fosse tua madre? Pensa se fosse la tua fidanzata o una tua amica? E dico che è la cosa più inutile che possiamo dire, perché gli uomini che ascoltano veramente questi discorsi non hanno bisogno di pensare di avere un legame di parentela con una donna per rispettarla, l’hanno imparato più o meno intorno ai sette anni come ci si relaziona alle persone. Finisco di dire questa cosa e parte un applauso degli uomini. Lo vedo proprio un uomo, che alza le braccia e fa partire un applauso. Continuo il mio discorso dicendo che quella sera avrei voluto dire esattamente l’opposto. Pensando a chi stupra una donna, a chi la ammazza, a chi la molesta, vorrei chiedere agli uomini: pensa se fosse tuo fratello o un tuo amico? La verità è che ogni femminicida, ogni stupratore, ogni molestatore è l’amico di qualcuno o è l’amico dell’amico di qualcuno. E quegli uomini non ascolteranno mai una donna mentre racconta come tutto questo sia sbagliato. Se c’è una possibilità che gli uomini ascoltino questi messaggi è se arrivano da un altro uomo. Ho voluto mettere il discorso che ho fatto all’Alcatraz nel pilot, nell’intro di Tutti gli uomini che si trova su tutte le piattaforme, perché è impressionante sentire cosa succede nel locale. Nell’istante in cui dico “pensa se fosse tuo fratello” cala un silenzio tombale e rimane quel silenzio fino alla fine del mio discorso. Lì ho avuto la consapevolezza, ho sentito che stava davvero succedendo qualcosa. Quando sono scesa dal palco alcuni uomini mi sono venuti incontro e mi hanno ringraziata per il mio discorso. Poi quel discorso l’ho messo anche sui miei social e molti uomini hanno iniziato a scrivermi dicendomi che avevano bisogno di sentirsi dire quelle cose, che qualcuno validasse la loro difficoltà. Quando diciamo Tutti gli uomini intendiamo proprio questo: tutti gli uomini hanno il privilegio di potersi far ascoltare da un altro uomo e questo mette davanti a una responsabilità. Moltissimi uomini hanno capito di avere questa responsabilità, però non sanno come e cosa fare. Come comincio una conversazione del genere con i miei amici? Con quali strumenti? L’idea che una donna, una femminista, abbia nominato quella difficoltà e l’abbia considerata valida, ha cambiato le regole del gioco. Se la domanda è questa, allora parliamone insieme, perché se il problema è sistemico, la soluzione non potrà che essere collettiva. Da qui nasce Tutti gli uomini, l’idea di intervistare molti uomini con background diversi, alcuni fanno divulgazione o insegnano questi temi, altri li hanno scoperti durante l’intervista e fino a quel momento non si erano ancora interrogati. La differenza si sente, si capisce che si tratta di persone in momenti diversi della loro decostruzione. Questo è molto utile perché vuol dire che qualunque uomo ascolti il podcast trova almeno una voce in cui rivedersi completamente.

Hai appena citato questa frase, che ripeti durante il podcast: “Se il problema è sistemico, la soluzione deve essere collettiva”. Questa frase ha la potenza di un mantra se detta con assoluta e profonda consapevolezza. Ti va di approfondire che cosa intendi con questa frase? Qual è il problema che secondo te è sistemico e come si costruisce, e da dove possiamo partire per costruirla, una soluzione davvero collettiva?

Il problema è sistemico perché non c’è una persona che non sia cresciuta in una società maschilista, quantomeno in Italia. Il maschilismo permea i nostri contesti, quindi ogni volta che noi abbiamo a che fare con un uomo violento, con una donna che pensa che il maschile sia superiore, che si fida degli uomini e non delle donne, non dobbiamo fare l’errore di guardare a questi come a casi singoli. Non sono casi singoli, sono il risultato di una cultura, di un sistema che ti racconta che maschile è meglio. Maschio è meglio. Questo sistema si esprime in una molteplicità di casi. Quando ho avuto l’età per fare la prima visita ginecologica, è stato con una donna. Quando ho cambiato e sono passata a un ginecologo uomo, sono stata contenta, perché ero convinta che sarei andata da una persona più competente e più preparata, solo perché uomo e stavamo parlando di un ginecologo. Mi sembrava che potesse essere più competente un uomo, nonostante fosse un uomo cisgender e quindi non avesse in nessun modo un’esperienza in prima persona di apparato riproduttore femminile. Certo puoi essere bravissimo con la teoria, ma l’altra parte, quella “pratica”, ti manca per forza di cose. Tra un ottimo ginecologo e un’ottima ginecologa razionalmente io vorrei andare da un’ottima ginecologa! Invece sono stata molto contenta quando finalmente ho avuto un ginecologo uomo, perché per me era più meritevole di fiducia. Questo è un problema sistemico. Non è il mio caso singolo, è il risultato di un sistema. Allora se questo è il risultato di un sistema, non si può chiedere alle persone di gestirlo singolarmente. Tu, singolo individuo, puoi anche sistemare la tua situazione personale, ma poi esci nel mondo e il mondo è ancora fatto così. È come quando si dice che la grassofobia esiste, ma l’importante è che tu impari ad amare te stessa. Ma tu puoi anche imparare ad amare te stessa, ma quando esci di casa ti urlano lo stesso cicciona. Non possiamo chiedere al singolo di occuparsi di risolvere un problema che non è del singolo. Ogni problema del singolo è la manifestazione di un problema sistemico. Se il problema è sistemico, la soluzione non può non essere collettiva.

Una curiosità. Come sono stati scelti gli uomini protagonisti del podcast? La loro identità è destinata a rimanere anonima?

Sì, le voci del podcast sono destinate a rimanere anonime. All’inizio avevo pensato di intervistare solo la punta della piramide, cioè il maschio bianco etero cisgender. Poi però mi sono detta che punti di vista diversi e privilegi che si incrociano con discriminazioni avrebbero favorito molte più riflessioni. In questo podcast ci sono uomini bianchi, uomini razzializzati, uomini etero, uomini queer, uomini cis, uomini trans, uomini con il six pack, uomini con corpi non conformi. La prima puntata chiede: quando ti sei accorto di essere un maschio? Ora quasi tutti rispondono a tre, quattro, cinque anni; poi risponde un ragazzo trans che dice di averlo capito a ventisei anni. Viene immediatamente messo in discussione, fin dalla prima puntata, che il genere sia definito dagli organi genitali con cui si nasce. Ho cercato per questo podcast quanta più diversità possibile, anche per far vedere che non tutti gli uomini hanno lo stesso livello di privilegio. Un uomo bianco ha molti più privilegi di un uomo nero. Questa cosa viene fuori più avanti nelle puntate durante le interviste. Gli uomini razzializzati che ho intervistato ad un certo punto mi hanno detto che non potevano più lasciare fuori la questione della razza. Questi uomini, infatti, non possono prescindere dalla razza, dal loro essere uomini neri, perché questo ha un’influenza sul modo in cui vengono guardati non solo in quanto uomini, ma in quanto uomini neri. Ho voluto poi che fossero uomini in momenti diversi della loro decostruzione; non avrebbe avuto senso intervistare solo professori universitari, che si occupano di questioni di genere, perché sebbene esistano, la maggior parte degli uomini fuori non assomiglia a loro. Volevo fosse chiaro che ogni uomo poteva farsi a sua volta la domanda della puntata. Detto questo, gli uomini intervistati sono tutti uomini che io conosco, con i quali ho un rapporto amicale, lavorativo o sentimentale, insomma un rapporto di fiducia. Questo perché tutti hanno raccontato e racconteranno delle cose estremamente intime e avevo bisogno di creare un setting di fiducia. Non penso sia facile raccontare alcune cose se non si ha la certezza che dall’altra parte ci sarà ascolto, comprensione e non ci sarà giudizio. Sarebbe stato non impossibile, ma sicuramente più difficile, creare quel clima di fiducia in così poco tempo con una persona che non conoscevo. 

Qual è l’obiettivo che ti eri prefissata quando hai pensato di realizzare Tutti gli uomini? Che tipo di feedback stai ricevendo? Pensi che questo ritorno sia in linea con il tuo obiettivo iniziale?

Secondo me è presto per tirare le somme, sono uscite solo due puntate di un progetto che andrà avanti fino al 2025. Tirerò le somme forse tra un annetto. Per adesso, però, sta accadendo quello che desideravo accadesse, ma non mi permettevo di dire ad alta voce. Per esempio, alla fine di ogni puntata c’è un questionario da compilare, tramite il quale tutti gli uomini possono in forma anonima rispondere alla domanda di puntata e partecipare al podcast. Razionalmente pensavo che se anche mi fossero arrivate dieci risposte sarei stata contenta. Dentro di me, invece, mi dicevo che sarei stata pienamente soddisfatta se me ne fossero arrivate almeno cento. Ne sono arrivate 135 per ora! Ma a parte questo sta accadendo qualcosa a cui non sono abituata. Ho i dm di Instagram pieni di messaggi di uomini, che mi stanno scrivendo per la prima volta. Mi è sempre successo in questi dieci anni di ricevere messaggi da uomini, ma di solito erano insulti. Ogni volta che mi arriva un messaggio da un uomo che non conosco, ho ansia ad aprire quel messaggio, perché sono abituata a minacce di stupro, minacce di morte. Questo è quello a cui gli uomini mi hanno abituata in questi dieci anni. Ora guardo quei messaggi e sono da parte di uomini che mi scrivono per ringraziarmi o per raccontarmi che si sono messi a piangere alla fine della puntata. A questi messaggi si aggiungono quelli di donne che mi scrivono, perché ancora una volta c’è la questione del carico mentale e del lavoro di cura che stanno facendo le donne anche rispetto a questo podcast, e mi dicono che hanno fatto sentire o hanno mandato il podcast al marito, al fratello, al collega. Sono ancora le donne il tramite, ma non solo. Qualche uomo lo scopre e decide di condividerlo nella cerchia dei suoi amici oppure lo scopre grazie a una donna e poi lo condivide con gli amici. Questo è il link più importante, quello che va da un uomo a un altro uomo. Se un uomo ascolta questo podcast perché glielo ha suggerito una donna, lo sta facendo per lei, almeno in parte per lei. Se un uomo ascolta questo podcast perché glielo ha suggerito un altro uomo, lo sta facendo solo per sé. Funziona così. Funziona se capisci che questo ascolto ti aiuta, aiuta innanzitutto te e poi certo può aiutare anche la tua relazione con altri uomini o con le donne. Mi arrivano messaggi di donne che mi dicono che l’hanno condiviso con il proprio padre e per la prima volta sono riuscite a parlare, ad avere una conversazione profonda, seria, un dialogo sui temi del podcast. È incredibile cosa questo podcast stia facendo a livello di connessioni, di relazioni interpersonali. Questo non sarebbe stato possibile se io avessi deciso di fare le interviste e in un secondo momento di realizzare un podcast in cui con la mia voce raccontavo cosa era venuto fuori da quelle interviste.

Il tuo curriculum dice di te: formatrice, scrittrice, podcaster e attivista femminista. Partiamo da qui: tu sei un’attivista femminista. Che cosa vuol dire essere un’attivista? Non che esista un manuale dell’attivismo, ma che cosa pensi significhi oggi fare attivismo e, più nello specifico, fare attivismo femminista?

Essere attivista significa fare delle cose assieme ad altre persone per provare a lasciare un mondo migliore. È qualcosa che puoi fare in piazza così come online, l’importante è che ci sia anche qui una dimensione di collettività. Non si fa attivismo da solə. Si fa divulgazione da solə, ma non attivismo. L’attivismo non può prescindere da una dimensione di gruppo, perché se l’obiettivo è lasciare un mondo migliore, non puoi scegliere tu singolarmente cosa voglia dire “migliore”. Non è una decisione che puoi prendere da solə, non è una decisione arbitraria. Devi necessariamente confrontarti con le persone e non solo con le persone che come te fanno attivismo, con tutte le persone. Occorre paradossalmente ascoltare anche le persone a cui non interessa nulla dell’attivismo, perché hanno lo stesso diritto tuo di vivere in un mondo migliore. Anche Giorgia Meloni merita di vivere in un mondo migliore, anche se sta facendo di tutto per lasciarcene uno peggiore. Umanamente io faccio quello che faccio anche per lei! Parlando di attivismo femminista, quando si parla di femminismo si pensa immediatamente alle questioni di genere. In realtà, dal momento che, ad esempio, il femminismo in cui mi riconosco è un femminismo intersezionale, non posso non avere gli occhi molto aperti su tutte le discriminazioni che vedo e soprattutto non posso non chiedermi quotidianamente cosa non stia ancora vedendo.

Sempre alla Irene attivista chiedo ancora: come si fa a scegliere le battaglie da combattere? Il punto di partenza, lo stiamo dicendo, è la consapevolezza che non possiamo come singoli individui combattere nessuna battaglia, possiamo farlo solo insieme. Al tempo stesso ciascuno di noi non può combattere tutte le battaglie, non può portarle avanti tutte insieme nella direzione di un mondo più giusto. Come si fa a scegliere quali battaglie combattere e come ci si relaziona con altre cause che consideriamo allo stesso modo giuste e valide ma per cui non possiamo lottare in prima linea?

Contando che le ore sono sempre 24 per chiunque, è evidente che non puoi permetterti di occuparti di tutto. Occuparsi di una questione significa, innanzitutto, studiarla, saperla maneggiare, imparare a conoscerla molto bene. Non si può fare questo lavoro con tutte le istanze, nessuno è un tuttologo. Per esempio, personalmente ho deciso di occuparmi nello specifico di questioni di genere, lì metto i miei sforzi accademici, lì metto il mio tempo di studio pesante. Ora chiunque abbia un profilo Instagram, parla a qualcuno. È vero che ci sono delle battaglie sulle quali non posso specializzarmi, perché non posso sapere tutto di tutto, ma posso lasciare il mio spazio aperto per quelle battaglie. Posso condividere qualcuno che parli di quel tema. Non ne sarò mai personalmente esperta, ma posso ascoltare chi è esperto e fare in modo che le sue parole arrivino ad altre persone. Posso essere un mezzo, lasciare il mio spazio anche a quei temi. Non me ne posso occupare in prima persona, ma posso far conoscere alla gente chi se ne occupa.

Viviamo in un mondo pieno di discriminazioni, ingiustizie, disuguaglianze; viviamo in un mondo in cui ci sono guerre atroci in corso; viviamo in un mondo la cui sostenibilità è gravemente in pericolo e per la quale sono richieste azioni importanti e urgenti. Di fronte a tutto ciò, una prima reazione, del tutto umana, potrebbe essere una radicale sensazione di impotenza o di ansia generalizzata. Una reazione più fiduciosa, invece, vorrebbe che ognuno di noi nel proprio piccolo, nella propria vita, si assumesse la responsabilità di mettere in atto dei comportamenti migliori, diversi da quelli che vediamo intorno a noi o diversi da quelli delle generazioni che ci hanno preceduto. Mi sembra che anche questo sia un messaggio che tu provi a trasmettere. In Tutti gli uomini inviti chiaramente gli uomini a parlare, a parlarsi, a parlare anche con quegli uomini che il podcast non lo sentiranno mai per cambiare insieme le cose. La domanda è: come si può avere fiducia nel fatto che possiamo ancora e sempre cambiare le cose?

Non so vivere senza pensare che le cose andranno meglio, altrimenti perdo il senso di tutto. Mi serve come l’aria pensare che le cose andranno meglio, che andranno meglio perché i nostri sforzi singoli valgono, vogliono dire qualcosa, valgono la pena anche quando ci sembra di non star facendo la differenza. Se penso a tutte le manifestazioni del passato, se penso a tutte le persone che hanno cambiato le cose, probabilmente quando hanno cominciato hanno pensato che non sarebbe cambiato niente. Chissà quanti si sono sentiti dei Don Chisciotte persi a combattere contro dei mulini a vento! E invece poi le cose sono cambiate davvero. Quando le cose sono cambiate, te ne accorgi dopo, non te ne accorgi mentre stanno cambiando. Mentre stai girando non ti accorgi di star girando. Non so vivere senza pensare che stiamo girando e che forse è solo che non me ne sto accorgendo.

Tornando al tuo curriculum, tu sei anche formatrice. In cosa consiste il tuo lavoro di formatrice?

Allora, partiamo dal fatto che faccio lo stesso lavoro di mio padre. Quando ero piccola cercavo di capire che lavoro facesse mio padre e che cosa volesse dire essere “formatore”. Mio padre me l’ha sempre spiegato così: “Io aiuto le persone a stare meglio dove stanno”. Nello specifico stiamo parlando di formazione nelle aziende. Mio padre mi diceva che quando una persona non sta bene nel suo posto di lavoro, ci sono due alternative. La prima e più semplice è quella di licenziarsi e cambiare lavoro, ma evidentemente non tutte le persone hanno il privilegio di potersi licenziare. La maggior parte delle persone non ha alternative, almeno al momento, se non stare dove sta. Allora, il lavoro del formatore è aiutarle a stare meglio dove si trovano in quel momento. Per molti anni ho fatto esattamente questo, andavo nelle aziende e mi occupavo soprattutto di quelle che vengono chiamate soft skill, che includono la capacità di stare in relazione con le altre persone, la capacità di comunicare nella maniera più utile, di ascoltare davvero chi abbiamo davanti. Successivamente ho integrato le questioni di genere, di cui mi sono appassionata nei miei anni di università, durante i quali stavo già lavorando come formatrice. Ho iniziato a lavorare nel 2010 e mi sono laureata in Magistrale nel 2013, per cui le due cose sono andate un po’ in parallelo. Da quel momento ho deciso di raccogliere tutte le competenze che avevo acquisito su come aiutare le persone nelle loro relazioni rafforzandole con un focus di genere, il che ha comportato anche aiutare le persone ad ascoltare per la prima volta il dato di fatto per cui probabilmente nella loro vita avevano discriminato. Non è una cosa semplicissima da raccontare e da sentirsi dire, da accettare e di cui rendersi conto. C’è bisogno di alcune competenze relazionali per permettere alle persone di ascoltare davvero queste cose. Ho messo insieme, insomma, le mie competenze e ora vado nelle aziende, ma non solo, anche nelle scuole e nelle università, a parlare di questioni di genere utilizzando una modalità che sia ascoltabile per chi ho davanti.

Sei Presidente dell’associazione no profit Bossy, nata nel 2014, che si occupa di parità, discriminazione, stereotipi di genere, femminismo e diritti LGBTQ+. In quali attività è impegnata Bossy?

Bossy, innanzitutto, si occupa di divulgazione attraverso la pubblicazione di articoli su temi anche molto diversi, che vengono trattati però tutti con la stessa lente, una lente femminista. Ci sono stati negli anni molti eventi dal vivo per permettere soprattutto alle persone più giovani di avvicinarsi a questi temi. Ciò si è rivelato molto semplice da realizzare, perché Bossy è composta da una redazione di persone giovani, cioè la media è di almeno dieci anni meno dei miei che ne ho quasi 35. Sono persone giovani che parlano a persone ancora più giovani di almeno cinque, sei anni, per cui è molto semplice avere una conversazione e degli scambi proficui. Sabato 15 e domenica 16 giugno, cioè nel mese del Pride, ci sarà un evento, Ink My Pride, un Walk-in di tatuaggi a tema LGBTQ+. L’obiettivo è quello di far capire che ci sono modi molto diversi per parlare di questi temi; lo si può fare leggendo un articolo, partecipando a una conferenza o persino facendosi un tatuaggio. L’evento in sé è, infatti, un’occasione per incontrare persone che sono lì per lo stesso motivo e con le quali possono nascere interessanti conversazioni.

La nostra intervista è finita. Come ultima cosa, ti chiederei un consiglio di lettura per i nostri lettori. Puoi scegliere tra libri di formazione, di attualità, romanzi, gialli, l’ultimo libro che hai letto, i tuoi libri. Hai carta bianca!

Tra i miei libri consiglio sempre Parità in Pillole come primo libro, per chi è interessato ai temi della parità di genere. Per tornare, invece, al podcast Tutti gli uomini, tenderei a suggerire qualunque libro di Lorenzo Gasparrini, che è un filosofo femminista. Siccome un altro tema molto caldo è poi il tema del linguaggio, consiglierei anche di dare uno sguardo ai testi di Fabrizio Acanfora e Vera Gheno.

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