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Liquichimica, la Sei Repower rigetta le accuse: non sta a noi smaltire i rifiuti

liquichimica1970. Per mettere fine alla “rivolta reggina”, il Governo centrale approntò un piano di sviluppo economico consistente nell’insediamento nel territorio di apparati produttivi, tra cui il polo industriale di Saline Joniche. Furono investiti, attraverso il cosiddetto “pacchetto Colombo”, trecento miliardi di lire di denaro pubblico per dare vita allo stabilimento Liquichimica, che avrebbe dovuto dare lavoro a circa 500 persone.

Ultimata la costruzione dell’industria, vennero fatti diversi collaudi ma, dopo una sola settimana, lo stabilimento chiuse i battenti poiché venne scoperto che le bioproteine ivi prodotte avrebbero potuto essere cancerogene. Nel 1977 viene dichiarato il fallimento.

La Liquichimica finì nel calderone dell’Enichem assieme alla Sir, che mandò in cassa integrazione i 500 operai che non ebbero nemmeno il tempo di cominciare a lavorare e che comunque percepirono 23 anni di stipendi senza mai varcare la soglia di ingresso del loro luogo di lavoro.

L’eredità di tutto questo è un’immensa struttura degradata dall’inutilizzo che campeggia di fronte al mare calabrese, una torre fumaria alta 175 metri (record europeo), un porto costruito “ad hoc” ma inutilizzabile (il fondale si è riempito di sabbia) e una grande quantità di rifiuti speciali completamente abbandonati al loro destino con conseguente inquinamento dell’area.

Nel 2006 l’impresa svizzera Sei s.p.a. (Società Energia Saline composta da Ratia Energia G.A., Hera S.p.A., Foster Wheeler Italiana S.p.A. e Apri Sviluppo) acquista dalla SIPI una parte dell’area dell’ex Liquichimica per realizzare una centrale a carbone con la potenza di 1320 Megawatt, con raffreddamento ad acqua di mare.

Si è aperto un dibattito tra i sostenitori del progetto Sei e coloro che si oppongono alla sua realizzazione. L’insediamento energetico, la cui fattibilità sarà al vaglio del Tar del Lazio il prossimo 27 febbraio, salverebbe – a detta dei primi – “l’intera area dal sottosviluppo, proponendosi come catalizzatore d’imprese artigiane grazie all’indotto, aumentando i livelli produttivi e, al tempo stesso, procedendo al disinnesco della bomba ecologica lasciata in eredità dal capitalismo industriale di Stato”. Per i secondi, invece, “i rifiuti tossici speciali, esposti all’aria, hanno contaminano l’ambiente e continuano ancora a farlo, con grave pericolo per la salute di tutti.

La responsabilità di tutto ciò è da imputarsi a chi si è susseguito nelle proprietà dell’area, a chi, con noncuranza per la salute altrui, non ha provveduto al corretto smaltimento di queste sostanze altamente nocive. La Sei-Repower, ad oggi, si è disinteressata dello smaltimento dei rifiuti tossici, facendo permanere nell’area dell’ex Liquichimica un pericolo per la salute di tutti i cittadini”.

In attesa della pronuncia del Tar, la Sei si defila dalle accuse mosse da più parti per quanto riguarda la presenza di questi materiali speciali, sostenendo che questi ultimi si trovano in una zona che non fa parte della proprietà dell’azienda e, pertanto, spetta ad altri il compito di rimuoverli in sicurezza. Vedremo chi la spunterà, ma una riflessione sul danno ambientale arrecato è d’obbligo, così come quella sullo spreco di denaro pubblico perpetrato per anni.

La Calabria potrebbe sostenersi autonomamente dal punto di vista economico e lavorativo: è una terra ricca di attrattive turistiche e gode di un ottimo clima, snaturare la sua vocazione significa violentarne l’essenza in nome dell’interesse di pochi, significa degrado, particolarismo e clientelismo.

Davide Lazzini
25 febbraio 2014

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