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Rosso banlieue, a casa degli ultimi

Parigi, le banlieues ed uno dei conflitti di classe più articolati e caldi dei nostri tempi. Atanasio Bugliari Goggia attraverso il suo libro “Rosso banlieue” (Ed. Ombre corte) ci offre una delle analisi più complete delle reali problematiche e della situazione di vita nelle periferie parigine.

Ciao Atanasio, complimenti per il libro e grazie per aver trovato il tempo per questa chiacchierata, come è nata l’idea Rosso banlieue?

Grazie innanzitutto dell’interesse tuo e del giornale per il libro. 

L’idea di Rosso banlieue prende piede nell’ambito di un progetto di ricerca dell’Università di Losanna, anche se verrà alla luce come lavoro parzialmente indipendente. Mi interessava indagare la composizione di classe nelle periferie francesi, andando oltre le retoriche legate al vuoto ideologico degli émeutiers, al comunitarismo, alla ghettizzazione e all’islamizzazione di cui sarebbero preda le banlieues. Ciò che più mi ha spinto in direzione della ricerca è stata la constatazione che le banlieues non fossero mai state “esplorate” dall’interno, sembrava che tutti avessero il diritto di parlare di questi territori e dei suoi abitanti, tranne che i protagonisti. Il mio voleva essere un tentativo di restituire la parola agli abitanti.

A chi fa comodo avere le banlieue come capro espiatorio?

La tesi centrale di Rosso Banlieue è l’idea che l’emergere di nuove condizioni di lavoro nelle banlieues abbia rappresentato un tentativo da parte del capitale di testare sul terreno un modello basato su forme di lavoro del tutto precarie e prive di tutela e su modalità estreme di controllo sociale, un paradigma che si voleva imporre a livello globale.

In altri termini, la partita che si giocava in banlieue ad opera del potere economico chiamava in causa, anticipandole, tanto una riorganizzazione delle forme di lavoro – che assumevano tratti di vero e proprio schiavismo – in una fase di caduta dei profitti, quanto, e conseguentemente, nuove forme di disciplinamento contro una novella classe operaia, allo scopo di renderla docile ed ubbidiente a questi nuovi processi produttivi. Il potere ha in definitiva testato in banlieue sia le nuove forme di lavoro che gli effetti che queste – associate alla necessità di ridefinire nuovi modelli disciplinari di messa a lavoro – avrebbero prodotto in termini di capacità di reazione della classe. Non è in tal senso un caso che i cicli di rivolta più importanti abbiano di poco preceduto o seguito lo scoppio della crisi del 2007.

Dall’altro lato della barricata tuttavia lo sterminato proletariato di banlieue non stava a guardare, provando ad agire rivolta contro questi processi in atto, sospinto da solidi legami di solidarietà che si inserivano nel solco di una potente visione di classe dei rapporti economici e sociali fatta propria dalla maggioranza degli abitanti.

La ricerca sul campo è durata 18 mesi, dal giugno del 2011 al dicembre del 2012, tuttavia nella parte conclusiva del testo ho cercato di riportare all’attualità le mie ipotesi, sia riallacciando i rapporti con alcuni dei/delle militanti conosciuti/e all’epoca, sia considerando gli effetti prodotti sulla classe e sul movimento di banlieue da due eventi epocali come il movimento dei gilet gialli e la sindemia del coronavirus

Nel tuo libro citi anche l’Islam, che ruolo ha la religione nelle banlieues?

La religione riveste un ruolo marginale, l’Islam come fede è confinata nel privato di ciascuno/a. Sono sufficienti due esempi: ho militato per un anno in un collettivo di giovani musulmani – senza essere credente – all’interno del quale si agiva su un terreno squisitamente politico. Inoltre, durante le rivolte del 2005 è stata emessa una fatwā contro le violenze che non ha sortito alcun effetto tra i giovani. 

Per quanto riguarda invece il cosiddetto Islam politico, alcune esperienze hanno fatto sicuramente da sfondo alla politicizzazione dei giovani. Al di là delle diverse sfaccettature, l’Islam politico, come sentimento di appartenenza e identificazione, contribuisce in maniera robusta a quel processo di presa di coscienza dei giovani di cui tratto nel libro. 

Infine, la religione musulmana, poiché praticata da una larga fetta dei e delle militanti di banlieue, rappresenta senza dubbio un fattore di tensione e divisione con quelli che chiamo movimenti sociali bianchi di città.

Hai avuto modo di vedere diverse realtà, quale banlieue ti ha colpito di più e perché?

Ho vissuto e militato in particolare a Clichy-sous-Bois e Aulnay-sous-Bois, banlieues caratterizzate da formidabili legami di solidarietà tra la popolazione, quantomeno nelle cités più povere. Tra le banlieues frequentate assiduamente nell’ambito della ricerca e della militanza, mi ha colpito molto Blanc-Mesnil poiché vanta una composizione sociale che vede i “bianchi” in netta maggioranza. Un esempio utile a sfatare anche il mito delle banlieues come ghetti urbani assimilabili alle periferie degli Usa. Le banlieues, al contrario di questa retorica, sono i luoghi di una compiuta “mixité razziale”, l’omogeneità è piuttosto da rintracciare nell’appartenenza dei suoi abitanti al gradino più basso della piramide sociale. Si vive in banlieue perché si è poveri e non perché “neri” o “beurs”: che poi la maggioranza dei poveri tenda a non essere francese “de socuhe” è un altro discorso. 

In tal senso, i piani di rinnovazione urbana – la famigerata “politique de la ville” – che da ormai trent’anni coinvolgono le banlieues, dietro il paravento della “mixité” nascondono una ratio ben precisa: spezzare l’unità e i legami della classe sociale che abita le periferie che, anche in virtù di questi legami, riesce a produrre conflitto sociale. “Deportare” la popolazione, oltre ai vantaggi di natura economica che apporta al capitalismo economico e finanziario e ai “benestanti”, tipici della gentrificazione come modello urbano e sociale, assolve la funzione di cancellare la memoria dei luoghi e dei suoi protagonisti.

Di questo tema, al centro non solo delle politiche pubbliche ma anche delle lotte dei banlieusards, dedico l’ultimo capitolo di ricerca del volume.

Solidarietà di classe: le banlieues ne sono l’ultimo esempio mondiale?

Di certo non mondiale, ma a livello europeo senz’altro. 

Nelle banlieues vive una sterminata classe sociale riconducibile senza esitazioni al proletariato e sottoproletariato metropolitano, impiegata in lavori precari e malpagati, che nella sua componente giovanile più attiva nelle rivolte era munita di una straordinaria coscienza di classe, ossia era consapevole di appartenere al gradino più basso della società, sapendo anche individuare i responsabili di questa condizione. Il tentativo che portavano avanti i militanti e le militanti più coscienti e organizzati/e di banlieue – i gruppi organizzati –  consisteva nella volontà di fornire gli strumenti perché i giovani prendessero consapevolezza della possibilità di poter modificare la propria condizione non solo attraverso rivolte temporalmente circoscritte ma anche attraverso un lavoro politico di lunga durata. In altri termini, occorreva compiere il passaggio dalla coscienza di classe alla coscienza politica.

Ciò che più colpiva, costituendo una tra le molle che spingeva all’azione, richiamava la capacità degli abitanti di tessere legami di solidarietà sulla base di una chiara appartenenza di classe. Ricordiamoci che le rivolte nel 2005 avevano avuto una partecipazione estesa ma anche una condivisione estesa: lo dimostravano i pochi arresti, come il dato che nessuno tra i pochi arrestati avesse dei precedenti penali. Quindi si trattava di una popolazione intera, la classe nel suo insieme, che si muoveva all’azione a partire da condizioni di vita e di lavoro non più sopportabili. Sullo sfondo di un controllo poliziesco e sociale dai tratti distopici. In tutto questo, sia detto per inciso, il fattore razziale più che un problema a se costituiva una tra le controtendenze messe in campo dal potere per spaccare la classe al suo interno. La dicotomia razza/classe in banlieue, troppo complessa da spiegare nell’intervista, ha rappresentato uno dei fili della ricerca poiché sempre presente nei discorsi e nell’agire dei militanti e delle militanti, nonché causa di fratture interne e con i movimenti di città, ed è per questo che alla questione ho dedicato l’intero capitolo 7 del libro: “Teoria postcoloniale e retorica multiculturalista”.

I legami di solidarietà generazionali e intergenerazionali prendono corpo, da un lato, dalle umiliazioni che si subiscono quotidianamente a lavoro, a scuola, nelle “relazioni” con la polizia e con le istituzioni in generale, dall’altro lato, attraverso la trasmissione della memoria delle lotte. Le banlieues francesi hanno una lunga storia di lotta e resistenza agite dalla sua componente di origine immigrata e dal proletariato e sottoproletariato francese relegato in periferia. Dalle lotte anticoloniali in territorio francese ai conflitti per il lavoro e la casa, fino alle battaglie contro la double peine. In tal senso, nel libro utilizzo il concetto di “racconti che girano in banlieue” nel tentativo di rendere conto della capacità degli abitanti di costruire un orizzonte comune attraverso il richiamo ad un passato di lotte e a un presente di sfruttamento. 

Hai già altri progetti in lavorazione?

A giugno uscirà sempre per Ombre corte un saggio che si focalizzerà piuttosto sui modelli organizzativi, sui repertori d’azione e sull’ideologia che informano quello che definisco “movimento collettivo politico di banlieue”. Se Rosso banlieue rivolge l’attenzione alla classe sociale delle periferie, ipotizzando anche l’esistenza di un movimento sociale al loro interno, il prossimo lavoro si focalizzerà su forme e contenuti di questo movimento, a partire dalla prospettiva delle opportunità politiche e dei nuovi movimenti sociali. Nei 18 mesi di ricerca etnografica, portata avanti attraverso il metodo delle conricerca come teorizzato da Romano Alquati, ho avuto la possibilità di militare in vari collettivi di periferia che si muovevano nei più svariati ambiti. Si trattava di nodi locali di una più ampia rete nazionale. Delle caratteristiche specifiche dei gruppi di banlieue e della loro capacità di coordinarsi a livello nazionale ci siamo occupati in questo saggio dal titolo provvisorio “Militanti politici di banlieue”: un richiamo non casuale ai militanti di base protagonisti dell’opera di Montaldi.

Se le banlieues hanno rappresentato una prefigurazione, un’anticipazione di nuovi modelli sociali e di lavoro da generalizzare in tutto l’Occidente, ciò significa che il movimento di banlieue sta al centro delle contraddizioni economiche e sociali della contemporaneità. In altri termini, il movimento di banlieue, pur non incarnando in quanto tale il soggetto “rivoluzionario” del XXI secolo, prefigura la tipologia di movimento sociale che a livello europeo si imporrà nei prossimi decenni. Un movimento nuovo, se non in tutto e per tutto, almeno in alcune sue caratteristiche: negli attori, rappresentativi della classe sociale alla base della piramide sociale; nelle rivendicazioni, attinenti a questioni di natura materiale (“il pane e le rose”); parzialmente nuovo anche nelle modalità di azione, con un livello di scontro che tenderà ad aumentare sempre di più.

Ultima domanda prima dei saluti: quale futuro vedi per le banlieues parigine nei prossimi anni?

I mali che affliggevano le banlieues all’epoca della ricerca si sono senza dubbio aggravati: razzismo e abbandono istituzionale, odio per i poveri, violenze poliziesche e soprattutto tassi di disoccupazione giovanile non dissimili da quelli del Sud Italia. Inoltre, dopo un momento di condivisione delle lotte con i movimenti di città, soprattutto attorno alla questione delle violenze poliziesche e, parzialmente, sull’onda delle mobilitazioni dei gilet gialli, oggi il movimento di banlieue fatica ad essere protagonista del ciclo di scioperi e proteste che attraversano la Francia. Pare insomma ripiegato su sé stesso, impegnato a sopravvivere piuttosto che a proporre conflitto sociale. Anche se, nello scenario odierno, “resistere” è già un successo. 

Rimane tuttavia la speranza che la “novella classe operaia” delle banlieues possa risollevarsi come soggetto politico per portare sulla scena un nuovo ciclo di protesta. Una speranza che prende corpo da quanto detto in precedenza sui contorni della classe sociale che abita le banlieues, in grado di riconoscersi in un destino comune ed agire attraverso robusti legami di solidarietà. Finché coscienza di classe e legami di solidarietà permarranno, il conflitto sociale sarà destinato a riprodursi. 

Una situazione, a conti fatti, ben diversa da quella che si intravede in Italia, dove l’orizzonte della lotta e del mutamento sociale pare del tutto scomparso. Seppure le condizioni terribili del proletariato italiano non siano da meno, ci troviamo confrontati, al contrario che in Francia, a dei meccanismi di strangolamento delle opportunità di un agire politico di classe difficili da riconoscere e smontare. Mi riferisco ad esempio al ruolo nefasto di un sindacalismo confederale piegato da decenni alle esigenze del capitalismo, alla scomparsa di fatto dei partiti istituzionali con una visione un po’ meno riformista, all’incanalamento progressivo della rabbia dei dannati della terra verso traiettorie populiste, tale ad esempio il ruolo del movimento 5 stelle delle origini. Il tutto sullo sfondo di un’ideologia dominante che ha cancellato l’idea stessa del conflitto come mezzo legittimo di mutamento sociale. Nell’orizzonte italiano paiono scomparire non solo la memoria delle lotte e la divisione in classi della società ma anche la legittimità stessa delle masse senza volto e dei suoi repertori. 

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