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Orwell, ogni narrazione è propaganda

Uno degli autori più citati in questo eterno presente che è l’epoca contemporanea è, fuor di discussione, George Orwell.
Alzi la mano chi almeno una volta non si è ritrovato a leggere che «la legge è uguale per tutti, ma per alcuni è più uguale degli altri» o che abbia sentito parlare di film orwelliano, di romanzo orwelliano, di futuro orwelliano.  

Che poi, parlare di futuro orwelliano oggi è una palese contraddizione di termini. Come ci spiegò Mark Fisher in Realismo Capitalista, una cultura come quella imposta dalla legge di mercato, che si limita a preservare se stessa senza mai contestare la tradizione, non è affatto una cultura, è solo una riproposizione stanca del presente che non può aspirare in nessun modo a diventare futuro.

Allo stesso modo, citare George Orwell su un qualsiasi social media —  da TikTok a Tinder, da Pinterest a OnlyFans — con il fine ultimo di criticare la società dei consumi, è un chiaro esempio di mise en abyme, di reduplicazione infinita di una sequenza di eventi, potente tanto quanto andare a vedere Goodbye Dragon Inn di Tsai Ming-liang in una sala cinematografica deserta (per chi giustamente ha deciso di non voler impegnare il proprio tempo libero approfondendo la filmografia di Tsai Ming-liang, in Goodbye Dragon Inn l’azione si svolge interamente in un cinema deserto).

In sintesi, se l’utente-produttore di contenuti oggi chiamato prosumer utilizza un mezzo di comunicazione per criticarlo, di fatto non sta facendo altro che alimentare con ulteriori contenuti quel media che in origine si era proposto di criticare.
Ma al di là delle possibili implicazioni meta-narrative legate alla fruizione di Orwell sui social, ci sorge il sospetto che, a forza di citare i soli La fattoria degli animali e 1984, i più potrebbero essersi convinti che lo scrittore, saggista, romanziere, giornalista britannico fosse affetto da sindrome del foglio bianco e che quindi la sua produzione letteraria, seppur geniale, si sia fermata precocemente.
Ci sono invece almeno altri 2-3 titoli che varrebbe la pena citare in relazione al nefasto tempo presente. Il primo è sicuramente il romanzo Fiorirà l’aspidistra, feroce critica dell’alta borghesia britannica abituata a vivere seguendo «il codice del denaro», il cui incipit, tra l’altro, è una revisione della Prima lettera ai Corinzi in cui la parola “carità” viene sostituita dalla parola “denaro”, per diventare: «il denaro sa resistere a lungo, ed è benigno; il denaro non invidia…»   

Passando invece alla saggistica, una delle raccolte più interessanti in circolazione è quella edita da GOG, dal titolo Tutta l’arte è propaganda: una miscellanea di scritti sull’arte e la comunicazione, realizzati a cavallo tra il 1941 e il 1948.
L’analisi del contemporaneo portata avanti da Orwell non può certo prescindere dagli eventi a lui contingenti, e dunque lo spettro dei totalitarismi — così come quello della guerra — si staglia pagina dopo pagina in ogni dissertazione dell’autore. Ma a prescindere dal contesto storico, la lucidità di alcune interpretazioni della società di massa portate avanti da Orwell appare puntuale sino ai giorni nostri. La tesi di fondo è sintetizzabile così: se l’arte è la narrazione di ciò che è reale, e se l’arte, in quanto rappresentazione, è propaganda, allora ogni tipo di narrazione è necessariamente una forma di propaganda. Necessariamente ma non definitivamente.
Per Orwell infatti ogni intellettuale — e l’intellighenzia a cui fa riferimento è quella inglese sua coeva — è vittima suo malgrado di una qualche forma di nazionalismo: «il Nazionalismo, nel senso esteso del termine, include movimenti e tendenze come comunismo, cattolicesimo politico, sionismo, antisemitismo, trotzkismo e pacifismo».

Il nazionalista pensa solo in termini di prestigio competitivo: «egli vede la storia, specialmente quella contemporanea, come costante ascesa e declino di grandi unità di potenza, e ogni evento che si verifica gli appare una dimostrazione del rafforzamento della sua parte e l’indebolimento dell’odiato rivale».
Dunque, nella koinè culturale europea che cerca di fare i conti con gli orrori della guerra, Orwell già intercetta quelle polarizzazioni dell’opinione pubblica che oggi concorrono alla definizione di «post-verità». Il mondo per Orwell è diviso in compartimenti stagni, e ciò rende difficile comprendere persino gli eventi più eclatanti. Ogni verità, persino quella apparentemente oggettiva, assume uno stato gassoso e si disperde in interstizi interpretativi che quella stessa realtà potrebbero persino stravolgerla: «non si ha modo di verificare i fatti e non è nemmeno certo che questi accadano; bisogna sempre fare i conti con interpretazioni e fonti diametralmente opposti».   

 Il sistema di pubbliche relazioni in cui è immerso l’uomo nella società di massa presenta gli avvenimenti «in modo così scorretto che il lettore medio può essere perdonato tanto per il fatto di trangugiare bugie, quanto per quello di formarsi convinzioni errate. L’incertezza generale su ciò che sta realmente accadendo rende più facile aggrapparsi a credenze folli».    

Orwell parla di nazionalismi per i quali ognuno di noi è pronto a vendere la pelle e la dignità. Oggi parleremmo di «collasso del contesto», di «bias di conferma», di algoritmi che lavorano per presentarci una realtà modellata ad hoc a seconda delle nostre abitudini di consumo. Viviamo nell’epoca dello storytelling ma questo non dovrebbe farci dormire sonni tranquilli.
Perché se ogni narrazione è propaganda, rischiamo di morire vittime della reinterpretazione. 

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