Bellocchio, Placido e Rubini…”Zio Vanja” di Cechov, teatro Bellini Napoli

In scena, al Teatro Bellini di Napoli, dopo una lunga e “chiacchierata” attesa, approda “Zio Vanja”, considerato, a indiscutibile ragione, uno dei capolavori assoluti di Anton Cechov. A rendere, a tratti irresistibile, l’attesa, il trio Marco Bellocchio, Michele Placido e Sergio Rubini, con il primo, chiaramente a dirigere il tutto ed i due attori a marcare indelebilmente il tasso di qualità in scena. La trama, nota o meno, ha il suo inizio nella casa di campagna ereditata dal professor Serebrjakov, cognato di zio Vanja e padre di Sonia. La prima moglie, sorella di Vanja, è deceduta e il professore si è risposato con Helena. Tra amori e vicissitudini di vario genere, Serebrjakov comunica a Vanja che è intenzionato a vendere il podere e questo fa uscire fuori tutto il temperamento del povero zio, che alla fine tenta di uccidere il professore con dei colpi di pistola, che miseramente non andranno a segno. Alla fine l’agiato ereditiere e Helena torneranno in città, lasciando a Vanja la possibilità di continuare ad amministrare la tenuta.
Brillante quanto materialmente eccentrico, Sergio Rubini, da bella prova delle indiscutibili doti sceniche, nei panni dello zio Vanjia, altrettanto impeccabile la pur breve interpretazione di Michele Placido, quanto mai a proprio agio nei panni del ruvido e fascinoso professor Serebriakoff.
Fedeli, considerato il contesto storico e sociale, le interpretazione degli attori che accompagnano Placido e Rubini in questa lunga e profonda visione di un tempo ormai passato. Liberi da potenziali e quanto mai inutili follie istrioniche, ogni personaggio, mostra il volto di un segmento di società dell’epoca, in cui Checov affonda le unghie, e di cui Bellocchio, offre uno squarci nel modo più naturale e forse “primitivo” possibile.
Pier Giorgio Bellocchio è Astrof, Anna Della Rosa è Sonia, Lidiya Liberman è Eelena, Bruno Cariello è Teieghin, Marco Trebian, veste i panni dell’operaio, mentre Maria Lovetti e Lucia Ragni sono rispettivamente la Balia e la Madre.
Marco Bellocchio, indiscusso talento del cinema d’autore italiano, offre al pubblico, questa sua “visione” di Checov, quanto mai fedele al testo originale è vero, ma proprio per questo, forse, ancor più imponente sotto il profilo emotivo ed emozionale, con i numerosi spunti e le svariate riflessioni sull’epoca.
Bellocchio quindi, non appone nettamente, il suo marchio sull’opera, ma la mostra, magari la ripresenta, cosi com’era stata concepita, figlia di un epoca incerta, di una classe sociale ancor più incerta, a metà tra la rassegnazione quasi tragica alla vita, ed il tentativo, forse appena abbozzato, di ribellarsi ad essa, per far si che nulla, possa continuare ad essere stanca e monotona resistenza ai giorni.
Paolo Marsico
16 gennaio 2014