Uso corretto e consapevole del linguaggio riferito alla comunità LGBT

Gaynet è un’ associazione nazionale che si occupa di tematiche legate all’omosessualità – in tutte le sue sfaccettature – nel campo dell’informazione e della comunicazione. Durante un convegno tenutosi lo scorso dicembre a Bologna , e chiamato ironicamente <<Gli ambienti “particolari” >>, l’associazione ha presentato un decalogo in otto punti da proporre ai media per un uso corretto e consapevole del linguaggio riferito alla comunità LGBT (ovvero Lesbo Gay Bisex Trans).
Questi “8 esercizi per l’informazione” fanno chiarezza non solo su alcuni termini inglesi –iniziativa lodevole in un paese di giornalisti anglofili ma non anglofoni- ma anche italiani che, per sciatteria o malizia di chi si occupa di informazione, vengono usati a sproposito.
Qualche esempio? Per iniziare, la differenza fra coming out e outing usati spesso come sinonimi. In realtà coming out viene dall’inglese “coming out of the closet”, letteralmente “uscir fuori dall’armadio”, e si riferisce a chi dichiara il proprio orientamento sessuale ad amici, famiglia, colleghi e così via. È perfettamente sostituibile dall’italiano “dichiararsi con”. Al contrario, outing si riferisce a una pubblica dichiarazione dell’omosessualità di un individuo fatta da terzi.
Altra espressione derivante dall’inglese e usata in maniera impropria è quella di “lobby gay”: lobby in inglese denota semplicemente un gruppo di persone mosse da stessi interessi, in Italia invece il termine ha connotazione prettamente negativa e settaria, motivo per cui è più opportuno parlare di “comunità LGBT” (quando ci si riferisce all’insieme dei militanti e delle associazioni) o di “realtà LGBT” (riferito alla totalità delle persone lesbiche, gay, bisex e transgender). Infine, la confusione fra inglese e italiano è frequente anche nell’uso dei termini “Transgender” e “Transessuale” spesso usati come parole interscambiabili fra loro: in verità “Transgender” è chi non si sente appartenente all’identità sessuale convenzionalmente prestabilita riguardo al proprio sesso biologico, in questa macroarea transgender poi sono presenti le persone transessuali, ovvero coloro che intervengono chirurgicamente alla riassegnazione del proprio sesso biologico.
Va notato poi che spesso l’acronimo LGBT compare anche come LGBTQI, comprendendo quindi anche i termini queer e intersex; queer, il cui significato tradizionale è “eccentrico”, era prima un termine spregiativo ma poi è stato adottato da tutti coloro che ritengono superata qualunque distinzione basata sulle preferenze sessuali mentre intersex è riferito agli individui che nascono presentando caratteri sessuali primari di entrambi i sessi.
Oltre all’inglese il decalogo punta i riflettori anche su alcune espressioni italiane, ammiccanti o ambigue, usate per lo più nei casi di cronaca nera .Modi di dire come “amicizie particolari”, “giri”, “frequentazioni”, quasi sempre corredati dalle virgolette, sono assolutamente da evitare in quanto implicitamente sottendono un contesto malavitoso. È offensivo anche esprimersi in termini di “condizione omosessuale” come se ci si riferisse a una situazione clinica quando, ormai da più di vent’anni, anche l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) parla di “orientamento naturale del comportamento umano”.
È inoltre più corretto preferire “pluralità” o “differenza” a “diversità” e sostituire “tolleranza” e “accettazione” con “rispetto” (ma buon senso suggerirebbe di utilizzare questa regola nei riguardi di tutte le cosiddette minoranze), viene poi da sé che usare l’aggettivo “gay” riferito a baci, feste, divertimenti è, oltre che discriminatorio, piuttosto insensato.
Nel decalogo poi non ci si ferma alle parole, spesso anche l’uso dell’immagine che correla un articolo può diventare fuorviante e l’esempio riportato è piuttosto chiaro: come nessuno si sognerebbe di mettere l’immagine di un addio al celibato riferita a un articolo sui matrimoni fra eterosessuali, così non ha senso parlare di matrimoni egualitari usando foto di Drag Queen.
Infine, il documento si chiude con una “regola aurea”: << Il giornalista o la giornalista che devono trattare un argomento LGBT non devono fare altro che domandarsi come tratterebbero la stessa notizia se non stessero parlando di persone LGBT. >>.
A questa iniziativa si accompagna il ciclo di seminari, svolto nell’ottobre 2013, rivolto ai giornalisti e intitolato “L’orgoglio e i pregiudizi”. Tale ciclo è stato organizzato dall’UNAR (Ufficio Nazionali Antidiscriminazioni Razziali) e fa parte di un più ampio progetto europeo a cui l’Italia ha aderito tramite il ministero delle Pari Opportunità. Da questi incontri è nato il documento chiamato “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT”.
Nonostante però l’ordine dei giornalisti abbia patrocinato questo ciclo di seminari, sul sito si specifica che il documento di linee guida nato dagli incontri non è stato adottato dall’ordine, né la questione è all’ordine del giorno. In effetti, la ricezione di queste linee guida non è stata accolta favorevolmente da tutti, anzi: con toni piuttosto stizziti Avvenire o Il Giornale, ad esempio, hanno parlato rispettivamente di “forma di censura molto grave che nega delle libertà” e di “lessico ipocrita imposto per legge”. Entrambe le testate, inoltre, citano come paragone il Minculpop (ministero di epoca fascista che si occupava delle propaganda di regime con ferrei controlli sulla stampa).
A questo atteggiamento di chiusura però, si trova un’efficace risposta già nel manifesto della conferenza di Bologna: <<Stereotipi e pregiudizi si propagano attraverso la comunicazione a tutti i livelli, ma è proprio la comunicazione la principale risorsa per sconfiggere l’omofobia. >>
Eliana Rizzi
13 marzo 2014