La santa canaglia di Atanasio Bugliari Goggia: il viaggio nelle banlieues continua
Dopo il libro Rosso banlieue, è fuori, per ombre corte, il secondo volume dedicato alle banlieues francesi. Nella nostra intervista parleremo con l’autore del suo ultimo libro e cercheremo di capire meglio la difficile situazione francese dopo l’uccisione del giovane Nahel.
Ciao Atanasio e bentornato, partiamo dal tuo ultimo libro, La santa canaglia, cosa ti ha spinto a proseguire questo viaggio in collaborazione con ombre corte?
Innanzitutto grazie al vostro giornale per l’attenzione.
Era già previsto questo secondo saggio sulle periferie francesi, quelle parigine in primo luogo, con l’intento di far emergere le caratteristiche di quello che definisco “movimento collettivo politico di banlieue”, composto da uno sterminato proletariato e sottoproletariato, assegnato a lavori precari e malpagati, contraddistinto da solidi legami di solidarietà e da una chiara visione di classe dei rapporti economici e sociali.
In Rosso banlieue mi sono focalizzato sul profilo sociale di questa novella classe operaia di periferia, stretta nella morsa dei nuovi paradigmi di produzione capitalistica che contraddistinguono la contemporaneità e di processi di disciplinamento e controllo sociale parzialmente riadattati per arginare i risvolti sociali di una crisi economica senza scampo e consegnare al contempo una forza lavoro ammaestrata alle esigenze proprie dell’epoca della crisi. Una classe sociale contraddistinta da vigorosi legami di solidarietà, la cui forza consente sia di riconoscersi come classe che di produrre conflitto. Dalle condizioni materiali e dai legami di solidarietà, nella cornice di forme di dominio che in banlieue assumono tratti distopici e sull’esempio delle lotte del passato, si modella così un movimento sociale dalla fisionomia marcatamente di classe. Questo lavoro si è posto l’obiettivo di delineare i tratti del “movimento collettivo politico di banlieue”, in grado di attivarsi attraverso micro-mobilitazioni che si innestano sul fertile terreno dei legami di appartenenza sociale e sui bisogni di una popolazione a cui storicamente l’orizzonte della lotta autorganizzata in vista del cambiamento non è per nulla estraneo. In definitiva, con Rosso banlieue si è tentato di descrivere i mutamenti in atto nella composizione di classe delle periferie francesi, mentre La santa canaglia ha voluto tracciare i contorni di quell’“arte della resistenza” che il mondo delle banlieues mette in atto nel tentativo di arginare i processi in corso e che dà forma e sostanza al movimento sociale. Attraverso la viva voce delle militanti e dei militanti si è dunque cercato di evidenziare i tratti che contraddistinguono questo movimento sociale delle periferie francesi rispetto alla sua evoluzione nel tempo, all’identità e ai legami di solidarietà, alla trasmissione della memoria delle lotte, all’organizzazione interna, ai repertori d’azione, alle opportunità politiche, ai processi di repressione e cooptazione, alle relazioni con altri movimenti.
Come nasce l’idea del nome?
Mostrare le caratteristiche del movimento sociale delle banlieues francesi mi è sembrato fondamentale anche in virtù del fatto che dall’orizzonte contemporaneo paiono scomparire non solo la memoria delle lotte e la divisione in classi della società ma anche la legittimità stessa delle masse senza volto e dei loro repertori d’azione. L’ideologia dominante pare aver cancellato l’idea stessa del conflitto come mezzo legittimo di mutamento sociale, riconducendo tutto al tema classico delle classi pericolose, paradigma del potere che trasforma le vittime in colpevoli. Se questo è lo scenario che contraddistingue l’“infame civiltà”, a maggior ragione chi propone conflitto sociale a partire dai legami di solidarietà che prendono corpo dalla condivisione di una medesima condizione di classe, sullo sfondo di una appartenenza territoriale che si vorrebbe miserabile, non può che assumere per il mondo legittimo i tratti della classe “canaglia”. Si tratta della classe pericolosa, di quella fetta di miserabili storicamente incubo dei dominanti, spesso incompresa nel suo incedere anche dal resto del “mondo dei vinti”, poiché precorritrice di nuovi sentieri di lotta. Una classe canaglia delle periferie che nell’epoca delle passioni tristi si prefigura ai nostri occhi come “santa” poiché in possesso per sua natura di quelle caratteristiche di appartenenza, identità e solidarietà che lasciano sperare di poter intravedere all’orizzonte un mutamento dei rapporti economici e sociali. Una santa canaglia composta dai fratelli di miseria e dalle sorelle di fatica, ovvero gli indispensabili, coloro che con il loro esempio di lotta restituiscono speranza e dignità a tutti i dannati della terra, mostrando come la strada del riscatto, seppure in apparenza impervia, possa essere percorsa dai diseredati, senza mai dimenticare che ogni tempesta inizia con una singola goccia.
“Arte della resistenza” è uno dei filoni principali del libro, come si è radicata ed evoluta nelle banlieues?
Per cogliere i lineamenti di quell’arte della resistenza che a mio avviso contraddistingue il “popolo” delle banlieues, ho deciso di spingere l’osservazione partecipante in direzione delle pratiche quotidiane che organizzano e alimentano una cosciente opposizione di classe in periferia, al di là dei momenti di protesta e dibattito strettamente politico, concentrando l’analisi su quello spazio sociale sicuro nel quale i subordinati creano il verbale segreto di resistenza al dominio. Ciò ha significato rivolgere lo sguardo sia alle dinamiche di sfruttamento materiale sia ai tentativi degli sfruttati di conquistare ambiti di autonomia e dignità, sovvertendo quell’essere “cittadini per difetto” cui la Repubblica condanna la popolazione di banlieue. Approcciarsi alla protesta in banlieue ha significato dunque immergersi a piene mani nella quotidianità dei suoi abitanti: nei racconti e nelle esperienze, nelle azioni politiche e nei momenti ludici, nei ricordi amari e nelle speranze di futuro, nel presente di umiliazioni a contatto col potere e di solidarietà nelle relazioni coi “paria urbani”. È l’insieme di questi momenti e attività a comporre il “verbale segreto” dei banlieusards, e all’interno di questa cornice è stato possibile ritrovare il significato più genuino della protesta e dell’arte della resistenza. A partire da questa impostazione, si potrebbe ipotizzare che le cicliche esplosioni di violenza altro non simboleggino che il momento di una rivelazione pubblica del verbale segreto da parte degli outsider. Tuttavia, per comprendere a fondo i contorni di questa “arte della resistenza”, è stato necessario focalizzare l’attenzione anche sulla storia delle relazioni tra periferia e istituzioni. In questo saggio ho cercato di descrivere questa traiettoria servendomi del concetto di struttura delle opportunità politiche, utile a determinare il grado di vulnerabilità di un sistema politico di fronte alle mobilitazioni. La storia degli ultimi quarant’anni delle relazioni tra i movimenti di protesta delle banlieues e il sistema istituzionale è segnata da grandi speranze e grandi delusioni e tradimenti, ricerca di opportunità politiche e chiusura istituzionale attraverso falsi modelli di integrazione, cooptazione della leadership, repressione delle mobilitazioni. Un andamento ondivago, fatto di promesse non mantenute da parte del potere a cui corrispondono via via espressioni di violenza o ripiego su sé stesso da parte del movimento, a volte istituzionalizzazione di alcune sue componenti moderate, a partire dagli anni Ottanta, nel periodo del ciclo delle Marce, all’epoca del tanto decantato e propagandato modello di integrazione repubblicano. Ed è appunto alla storia del movimento che bisogna guardare per comprendere la portata dei meccanismi di repressione, “recuperazione” politica, strumentalizzazione e “imborghesimento” che hanno regolato le relazioni tra movimento di banlieue e potere costituito. Rivolgere l’attenzione alla storia dei movimenti di banlieue e ai loro rapporti con lo Stato e la sinistra bianca significa interpretare le émeutes del 2005 anche in termini di opportunità politica per i giovani outsider.
Nel libro si affronta un tema importante: il movimento sociale nelle banlieues e tutto il suo ecosistema. Quanto pesa politicamente un fenomeno del genere all’interno di una società?
Non c’è dubbio che in generale i movimenti sociali possano rappresentare un formidabile volano di trasformazione in una data società, una maniera per imporre al centro dell’attenzione politica e dei centri decisionali le istanze dei senza voce. Basti pensare al ruolo propulsivo dei movimenti in Italia negli anni Settanta o, per restare all’attualità francese, a quelli sviluppatisi in questo paese negli ultimi anni. Tuttavia, tutto ciò è vero in linea teorica, o perlomeno vale per alcuni “tipi” di movimento sociale. Nel rapporto tra l’élite e i movimenti interviene infatti costantemente la questione di classe. In altri termini, i movimenti non sono tutti uguali: i movimenti “dei poveri”, con una forte componente di classe, sono maggiormente avversati dal potere politico, e subiscono più facilmente la repressione. Sono, infatti, i movimenti di classe che, portando avanti istanze di giustizia sociale, mettono in discussione la struttura sociale e il sistema di privilegi così come si è imposto nei sistemi democratici; quella medesima struttura e quegli stessi privilegi di cui paradossalmente si nutre il potere politico che dovrebbe essere solidale con le aspirazioni del movimento: è questa naturale e irreversibile antitesi tra le istanze dei movimenti di classe e un sistema democratico fondato sui privilegi che rende irrealizzabile uno scambio. Vale tutt’altro, ovviamente, per i movimenti sociali che non si pongono al di fuori del perimetro democratico e non mirano al sovvertimento dello status quo: nei loro confronti la cessione di porzioni di potere da parte dell’élite politica sarà possibile, se non auspicabile, e del resto i loro leader avranno poche remore nell’accettare le lusinghe del potere.
Sguardo al presente, il caso Nahel. Hai avuto modo di sentire qualche testimonianza francese in quei giorni? Com’è stata gestita politicamente la situazione? Non dovrebbero esserci “casi Nahel” ma secondo te esiste un modo per evitare la violenza che ne consegue?
Durante le rivolte e nei giorni immediatamente successivi sono stato a stretto contatto telefonico con un certo numero di militanti con cui avevo condiviso un pezzo di strada durante la ricerca sul campo. Alcuni/e non li sentivo da un po’, con altri/e avevo mantenuto uno scambio frequente: le loro testimonianze mi hanno chiarito le idee su quanto stava accadendo in Francia. Con alcuni/e abbiamo realizzato delle brevi interviste che sono uscite su riviste di movimento in Italia e Svizzera, proposte di intervista che hanno accettato di buon grado perché sentivano forte l’urgenza di far comprendere anche fuori dai confini francesi il reale significato di quanto stava accadendo, al di là delle retoriche mainstream. Ho cercato di raccogliere le voci di militanti sparsi nelle periferie di varie città: Parigi, Lione, Marsiglia, Montpellier e Grenoble. Quello che più mi ha colpito di queste testimonianze è stata la lucidità e la coerenza delle analisi: quell’insieme di cause che nel periodo della ricerca venivano presentate come alla base dei mali delle banlieues, fattori che spesso non era possibile porre immediatamente in relazione tra loro, si erano evolute e precisate in maniera formidabile sul piano teorico e del vivere quotidiano per così dire. Mi riferisco in particolare alla dicotomia razza/classe, qualche anno addietro fattore potente di divisione tra gruppi e collettivi, che oggi sembra avere trovato una propria coerenza nell’idea cardine che: “Si vive in banlieue non per etnia ma perché si è poveri e assegnati a determinati tipi di lavori” (Zouina, 02.07.2023). Una chiara prospettiva di classe dei rapporti sociali, che nel 2011-2012 era propria solo di una fetta di militanti e popolazione, emergeva adesso incontrastata. Come sostenuto da Nadia nell’intervista del 4 luglio scorso: “Possiamo dire che si è poveri perché si è neri e si è neri perché si è poveri: la povertà scurisce anche la pelle dei bianchi che vivono in periferia”. In tal senso, mi sento di sostenere che l’ipotesi cardine del mio lavoro – l’idea che le rivolte siano un prodotto puro dei rapporti di classe mentre il fattore razziale è un’arma del potere per dividere il proletariato – abbia trovato pieno riscontro nelle motivazioni dei/delle protagonisti/e delle rivolte di fine giugno, perlomeno secondo le testimonianze e i comunicati e al di là del fattore scatenante. Con ciò non voglio dimenticare il ruolo rivestito dalla frattura postcoloniale: per un giovane arabo o nero il rischio di essere ammazzato, come purtroppo la cronaca non smette di mostrarci, o «semplicemente» fermato dalla polizia, è molto più alto rispetto a un cittadino medio bianco. Se drammi come quello di Nahel sono il prodotto puro dello stato di putrefazione del capitalismo, non esiste strada alternativa per arginare questo stato di cose che non sia una trasformazione radicale del tipo di società in cui viviamo. Certo, ci sarebbero alcune riforme urgenti che potrebbero migliorare la situazione nell’immediato, mi riferisco ad esempio alla normativa che regola l’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine. L’ex Primo ministro Cazeneve, pupillo dell’ignobile Hollande, nel 2017 fece votare la legge sul “rifiuto d’obbedire allo stop da parte delle polizie” (réfus d’ottémperer), dispositivo a sua volta manipolabile in nome del diritto alla legittima difesa delle polizie. Ma si tratta di pure illusioni a mio avviso: come si può pensare di riformare l’apparato poliziesco di stampo coloniale se il 70 per cento dei poliziotti appartiene ad un sindacato di estrema destra e il corpo di polizia in generale assume ormai di fatto i connotati di vero e proprio potere politico, autonomo e indipendente? Basti pensare che il numero di morti collegate all’operato delle forze dell’ordine ammonta a 44 solo negli ultimi 24 mesi.
Sulle rivolte di giugno ci sarebbe molto da dire: sulle trasformazioni del mondo del lavoro, sui processi di repressione e controllo sociale della specifica classe sociale che vive in banlieue, sull’odio delle istituzioni nei confronti dei poveri, così come sul versante dei movimenti di banlieue: ad esempio l’evoluzione delle relazioni coi movimenti di città, più in particolare con le mobilitazioni che hanno attraversato la Francia negli ultimi tempi, dai Gilet Jeunes al movimento che si è opposto alla riforma delle pensioni fino al movimento che ritengo più interessante, quello di Soulèvements de la Terre. Questioni di spazio impediscono una valutazione puntuale su questi temi; tuttavia, una linea generale si può tracciare. A partire da un dato indiscutibile: i mali che affliggevano le banlieues all’epoca della conricerca si sono senza dubbio aggravati: razzismo e abbandono istituzionale, odio per i poveri, violenze poliziesche e soprattutto tassi di disoccupazione giovanile nell’area della prima periferia parigina superiori, tanto per fare un esempio, a quelli che si riscontrano a Reggio Calabria. È possibile rintracciare l’evoluzione della parabola delle banlieues francesi nell’ultimo decennio in termini di repressione e controllo sociale, capacità di rivolta e possibilità di organizzazione, soltanto a partire dal dato oggettivo che la crisi di profitto – ciclica o irreversibile – del capitalismo sia più che mai al centro delle contraddizioni della contemporaneità, rimandando ogni altra spiegazione del fenomeno banlieue nel campo della retorica borghese – criminalità, islamizzazione, comunitarismo, dissoluzione dei legami familiari – o in quello del particolarismo che erge le singole controtendenze messe in campo dal potere economico e statuale e che storicamente operano in queste fasi – giro di vite securitario, abbandono istituzionale, fascistizzazione del sentire comune – a interpretazione ultima delle rivolte. L’acuirsi della crisi economica ha determinato dunque delle differenze nelle relazioni tra potere e classe canaglia rispetto a quanto visto all’opera durante la ricerca. Una traiettoria che interpreto tuttavia come evoluzione ed esasperazione di processi già in atto e non in termini di vere e proprie rotture. Una evoluzione è rappresentata senza dubbio dall’escalation repressiva, in atto già da qualche anno ma che si è manifestata pienamente nei 9 giorni di rivolta. Un morto ed un ferito grave a Marsiglia, discesa in campo dell’esercito, 45.000 poliziotti e gendarmi sguinzagliati a fronte degli 11.000 del 2005 sono solo alcuni degli innumerevoli esempi di un potere che si mostra nudo e privo di mediazioni. Nella stessa direzione deve essere letta la raccolta fondi per l’assassino di Nahel: come riporta uno dei miei informatori da Lione: “Il messaggio che traspare dalla raccolta fondi è che non solo ammazzare un arabo non costituisce reato ma rappresenta anche una maniera di svoltare nella vita. Sparare a un lascar da oggi ha lo stesso significato che vincere al superenalotto”. L’esempio iconico di questo giro di vite securitario è senza dubbio racchiuso nella discesa in campo, col sostegno degli apparati statali, di nutriti gruppi neofascisti, non più di un centinaio di infami in realtà, che tuttavia con la copertura poliziesca e istituzionale sono riusciti ad occupare la scena per qualche ora. Sia detto per inciso che questo securitarismo spinto all’estremo va di pari passo con uno spostamento verso l’estrema destra tanto delle istituzioni della République che del sentire comune dell’opinione pubblica d’Oltralpe, quest’ultima, del resto, storicamente allergica ad offrire parola e prossimità agli infiniti altri che vivono nelle sterminate periferie. Il razzismo di classe che contamina la società e le istituzioni francesi è un dato storico che non merita molti approfondimenti. Tirando le somme, quel che emerge è l’immagine di un potere che ha definitivamente gettato la maschera, rigettando ogni parvenza di giustificazione del proprio operato con l’ausilio dell’armamentario cosiddetto democratico. Pare saltato definitivamente non solo il riconoscimento del nemico ma perfino ogni posticcia giustificazione di stampo borghese e illuminista che di solito accompagna l’agire delle istituzioni. La repressione si mostra nuda, priva di mediazione. Si spara, si imprigiona, si ammazza perché si è in guerra contro il nemico di classe. Dall’altro lato della barricata, anche i petits – categoria “bianca” che assegna il ruolo di émeutiers esclusivamente a una fascia di popolazione considerata, per la giovane età, priva della capacità di agire razionale e che per estensione etichetta l’insieme della popolazione di banlieue come incapace di agire politicamente – sono entrati in campo senza cercare alcuna mediazione o giustificazione che chiamasse in causa le istituzioni. Anche la rivolta si è mostrata nuda, priva di passaggi che mostrassero qualsivoglia volontà di riconoscimento da parte del potere paternalista bianco. Se nel 2005 la rivolta in alcuni suoi passaggi sembrava ancora chiamare in causa le istituzioni, stavolta emerge con più forza un disconoscimento della République. Questo spiega anche una propensione al rischio molto più accentuata che in altre occasioni: se l’utilizzo della violenza come tattica politica da sempre contraddistingue i banlieusards, in questo frangente mi pare che ci sia stato in tal senso un ulteriore salto in avanti, anche in termini di coscienza di classe e politica dei protagonisti. Seppure una coscienza emergeva vivida anche nel 2005 – si pensi ai roghi alle agenzie interinali o alla Citroën di Sarcelles – in questo caso gli obiettivi politici della rivolta lasciano ben poco spazio alle ambiguità, toccando simboli nuovi. In tal senso, lo spirito insurrezionale emerge, ad esempio, dalle 22 sedi di comuni andati a fuoco, dall’incendio alla sede del Ministero dell’economia e delle finanze e alle sue diramazioni territoriali. Evidente inoltre la capacità di centrare vecchi obiettivi ma con una capacità militare nettamente superiore, anche in considerazione del fatto che la rivolta è durata 9 giorni contro i 21 del 2005 e lo spiegamento poliziesco è stato molto più imponente di allora. I commissariati incendiati sono stati quasi 200, contro la trentina del 2005, il numero di poliziotti feriti tre volte superiore, il fuoco alle auto parzialmente rimpiazzato con una escalation nella distruzione di “beni pubblici”. Gli obiettivi della protesta rimandano più che mai ad un quadro di coscienza di classe cristallina. La disponibilità al rischio e l’azione sul campo denotano una capacità militare di stampo insurrezionale.
Sulle sommosse del 2005; affermi che, qualora gli attori prendessero coscienza, una nuova e più forte generazione di militanti politici nelle banlieues potrebbe fiorire. Ad oggi a che punto siamo?
Con La santa canaglia provo a far emergere una linea di continuità ideologica e d’azione tra il movimento delle banlieues degli anni Ottanta e Novanta e i giovani protagonisti delle rivolte del 2005, un legame di tipo essenzialmente solidaristico. Sulla scorta di quanto osservato sul terreno, è possibile suddividere i giovani che hanno preso parte alle rivolte del 2005 in tre tipologie: coloro che appartenevano a qualcuno dei collettivi di banlieue e dunque al movimento collettivo politico di banlieue con vari gradi di partecipazione; coloro che all’epoca dei fatti non facevano parte di nessun gruppo ma che – proprio in seguito alle émeutes – sono entrati in contatto con i collettivi di quartiere durante o subito dopo le sommosse; infine, quei banlieusards che non sono mai entrati organicamente nei collettivi di banlieue e dunque nel movimento. Ciò naturalmente non significa che questi ultimi, pur non essendo simpatizzanti né militanti, non abbiano intessuto legami di un qualche tipo con i collettivi: ci si conosce, ci si rispetta, spesso si è amici, ci si scambiano consigli e punti di vista e, soprattutto, si vivono insieme le occasioni di protesta. Ci pare che per questa terza tipologia di giovani banlieusards sia assai calzante l’espressione “affinità senza egemonia” come proposta da Richard Day in riferimento ai “nuovissimi movimenti sociali” della contemporaneità. Con essa si vuole intendere che durante i momenti di protesta – principalmente le émeutes – questa componente agisce collettivamente attraverso il riconoscimento di un’affinità di vita, di contesto sociale, di opportunità, e così via. Tuttavia, si tratta di un’affinità che, pur mobilitando all’azione, non prevede un orizzonte politico egemonico, non tanto in termini di potere bensì come raggiungimento di obiettivi di protesta prestabiliti. Sulla scorta di queste tre tipologie, è possibile suddividere il movimento su due livelli.
Il primo livello si compone dei gruppi e collettivi politici di banlieue che si battono per i più svariati obiettivi, il più delle volte concernenti i quartieri popolari, ma sempre improntati a una visione globale di trasformazione dell’esistente, a una comune visione del mondo. Si tratta di gruppi e collettivi ben visibili, che agiscono alla luce del sole, con un’organizzazione strutturata, in molti casi di estensione nazionale, nati a partire dagli anni Novanta nei quartieri popolari per lo più su singole “emergenze”: violenze della polizia, “double peine”, razzismo di Stato, condizioni di lavoro, islamofobia, eccetera. Rappresentano lo zoccolo duro, quanto a organizzazione e capacità di convogliare la lotta, del movimento collettivo politico di banlieue. Questi gruppi e collettivi si innestano con grande consapevolezza nella storia politica dei quartieri, in quelle realtà non più esistenti che hanno costituito il movimento sociale di banlieue nei decenni andati. In definitiva, i gruppi storici rappresentano l’eredità politica trasmessa di generazione in generazione. I nuovi collettivi di banlieue e il movimento nel suo complesso sono sorti da questo fertile terreno di contenuti ideologici e lotte esemplari, di miti cui attingere: in breve, dal sapere delle lotte. Il secondo livello della protesta è invece rappresentato dai giovani e giovanissimi protagonisti dei ricorrenti cicli di émeutes ed è contraddistinto dalla predominanza del repertorio violento, da una organizzazione politica snella e informale oltre che, almeno in parte, da un’ideologia chiaramente di classe. L’émeute è il principale repertorio d’azione utilizzato da questi giovani, che raramente investono le proprie energie militanti in battaglie politiche che non siano diretta emanazione della violenza materiale e simbolica subìta dentro le banlieues. L’organizzazione si limita alla formazione di “gruppi di affinità” durante le émeutes, mentre nei periodi di “quiete” non permane alcun tipo di struttura: conoscenza reciproca, medesime condizioni di vita e solidarietà sono sufficienti per coordinarsi durante le émeutes e, prima ancora, intervengono nella decisione politica di utilizzare la violenza.
Come ricordato, una parte dei petits, soprattutto dopo i fatti del 2005, è entrata a far parte del primo livello della protesta, aderendo a realtà più strutturate del movimento: in questi casi, i collettivi hanno saputo avvicinarsi ai giovani, offrendo loro un progetto politico e una visione del mondo. Ha contato molto anche l’offerta di solidarietà contro la persecuzione poliziesca e giudiziaria, la protezione politica, il fatto che i collettivi abbiano rivendicato l’azione degli émeutiers come propria, la condivisione materiale degli eventi in alcune componenti e l’assenza di condanna politica (se qualcosa era da condannare in merito all’émeute come repertorio d’azione, il dibattito tra petits e collettivi si è tenuto nel chiuso delle riunioni politiche). In definitiva, per quel che concerne il legame politico-organizzativo tra collettivi di banlieue e banlieusards che vi hanno aderito successivamente, è possibile immaginare un movimento in entrambi i sensi: da un lato, sono stati i gruppi più strutturati a rivolgersi ai petits, dall’altro, i banlieusards – o almeno una parte di essi – hanno manifestato la volontà di avvicinarsi a loro, rapportandosi a strutture radicate in banlieue a cui riconoscevano esperienza politica e capacità di analisi. Questo doppio movimento fa perno sulla solidarietà che unisce collettivi e petits, poiché entrambi, oltre che condividere l’appartenenza sociale e territoriale, vantano l’eredità di una storia comune esemplificata dalle lotte dei movimenti sociali di banlieue dei decenni passati, ovvero dai gruppi e collettivi storici. Una parte di petits, invece, pur condividendo con le altre componenti del movimento una solidarietà di fondo, sia di classe che territoriale, e la storia delle lotte, non ha successivamente aderito ai collettivi, e ciò per due ordini di motivi. Innanzitutto, perché una parte di loro – seppur minoritaria – era in effetti sospinta solo da una logica del danno, una rabbia per le proprie condizioni di vita che trova sfogo nei cicli di violenza, per poi ritirarsi nella dimensione privata, o comunque in una dimensione prepolitica. Il secondo ordine di motivi va invece ricercato semplicemente nel concetto di militanza, negli sforzi, nelle disponibilità materiali e simboliche e nelle attitudini necessarie affinché sia praticabile. Non tutti i giovani di banlieue avevano le possibilità materiali, la voglia e il tempo di impegnarsi in una militanza duratura. Tutti disponevano però delle risorse simboliche e ideologiche che derivano dalla vita in banlieue, da un contesto sociale, ambientale, territoriale e familiare oltremodo politicizzato. Se tali risorse non sono state sufficienti in un certo frangente a spingere alla militanza quotidiana, è pensabile che ciò possa accadere in altre circostanze, poiché le basi ideologiche e morali sono costantemente presenti: l’humus politico fa parte di questi giovani, dei territori in cui vivono, della classe sociale di appartenenza. Si può quindi affermare che esiste un legame stretto fra i due livelli della protesta, fra i gruppi e collettivi di banlieue e i petits non militanti (affinità senza egemonia), un condizionamento reciproco e non unidirezionale. Queste sono le dinamiche politiche, sociali, territoriali e organizzative che a mio parere spiegano le rivolte del giugno scorso, oltre l’evento scatenante.
Non mancano nel libro le testimonianze dirette di protagonisti impegnati politicamente nei quartieri, c’è una testimonianza alla quale sei più legato?
Considera che la ricerca sul campo è durata due anni, per cui ho avuto modo di intrecciare relazioni forti che sono andate ben oltre il momento dell’intervista. Come detto in precedenza, durante le rivolte seguite all’omicidio di Nahel, i/le militanti di banlieue da me contattati/e hanno risposto subito presente, impegnandosi in interviste, commenti, nel resoconto della cronaca quotidiana, nonostante dai tempi della ricerca fossero passati dieci anni. Insomma, posso sostenere con una certa fierezza che ciò è stata la dimostrazione viva di come il senso più profondo della conricerca teorizzata da Romano Alquati avesse trovato compimento nell’inchiesta sul campo. In definitiva, più che di testimonianze a cui sono legato, parlerei di vere e proprie relazioni che durano nel tempo. In tal senso, sono particolarmente legato a quelle e quei militanti che hanno dedicato la propria esistenza alla popolazione di banlieue, con conseguenze pesantissime in termini di repressione, rinunce lavorative, stigmatizzazione. Si tratta di militanti politici di base contro i quali il potere, non riuscendo a farli cedere con la strategia della cooptazione o della corruzione, agisce senza sosta in termini di pura vendetta, anche verso i familiari: ad alcuni/e erano stati sottratti i figli, altri/e non avevano più avuto possibilità di rimediare un lavoro, eccetera. Tra le strategie del potere per annientare i/le militanti, la cooptazione era di certo tra gli strumenti più utilizzati: quei compagni e quelle compagne che avevano saputo resistere a questi richiami, con tutte le conseguenze di cui sopra, meritano certamente un apprezzamento speciale. Come sostiene Abdelaziz in una testimonianza dell’epoca: “Oggi ci vogliono i kamikaze politici! Se oggi non sei un kamikaze politico, vieni mangiato. È terribile, è ingiusto! Dobbiamo sacrificare le nostre vite. Io ho sacrificato la mia vita professionale e anche la mia vita personale, praticamente. Vedete, Tarek, del Mib, non ha nemmeno i soldi per curarsi i denti, è un attivista da quarant’anni! Non è normale, non è giusto. Avrebbe potuto essere responsabile di un ministero, avrebbe potuto prendere il posto di Fadela Amara, sicuro! Se si fosse seduto alla loro mensa, ma noi non ci sediamo alla loro mensa. Ecco perché amo queste persone e le rispetto. C’è amore tra noi, non solo rispetto. Amo le persone integre, amo i combattenti della resistenza. Oggi mancano i resistenti. Abbiamo bisogno di resistenti e di kamikaze”.
Un cenno anche ai militanti e alle militanti più giovani: in una fase storica di riflusso e di abbandono della politica organizzata, i petits che assumono la scelta di impegnarsi collettivamente meritano un particolare plauso. Così come, infine, quanti/e ad un certo punto della vita si sono visti/e costretti/e a lottare per ottenere giustizia per un familiare o un amico ammazzato dai gendarmi. Vorrei sottolineare che La santa canaglia, al contrario del precedente saggio, contiene una sezione dedicata esclusivamente a interviste e stralci di momenti assembleari pubblici: di ogni interlocutore e interlocutrice ho tratteggiato una breve biografia che dà conto del vissuto politico e personale così come delle difficoltà che si incontrano quotidianamente nei territori di banlieue.
Per Ombre corte sei uscito già con Rosso banlieue, La santa canaglia… bolle altro in pentola per il futuro?
Sì, in effetti è in fase di elaborazione un progetto che si focalizza sulle trasformazioni del mondo del lavoro in Italia e sulle lotte che fortunatamente questi cambiamenti si portano appresso in alcuni settori. Mi riferisco in primo luogo al mondo della logistica e all’esempio militante che i lavoratori, spesso di origine immigrata, di questo settore hanno saputo offrire nell’ultimo decennio in alcune zone d’Italia. Si tratta, a mio avviso, di uno dei pochi esempi di lotta di classe organizzata in Europa. L’idea è di utilizzare anche in questo caso il metodo fecondo della conricerca, anche in considerazione del fatto che per alcuni anni sono stato impegnato attivamente nel sostegno a queste lotte, con tutto quel che ne è derivato in termini di relazioni e scambio politico. Un progetto ambizioso che mira a far emergere in primo luogo le biografie dei lavoratori impegnati in alcune lotte emblematiche, sullo sfondo delle trasformazioni dei processi produttivi. Perché, come per le periferie francesi, il punto di rottura è senza dubbio rappresentato dai cambiamenti del mondo del lavoro conseguenti alla crisi economica, con tutto quel che ne deriva in termini di peggioramento delle condizioni di lavoro ma anche di capacità di reazione del proletariato.
Atanasio ti ringrazio per il tuo tempo e ti auguro un grande in bocca a lupo per i progetti futuri.