Mouri. Non servono soldi, servono ideali

È uscito Che peccato, il nuovo singolo di Mouri, realizzato in collaborazione con la regina della scena rap-queer ballroom Precious. Prodotto e arrangiato da Ferdinando Arnò, il pezzo è un viaggio introspettivo in cui il rapper pugliese racconta il disagio esistenziale di un’intera generazione di ragazzi che ha deciso di emigrare dal Sud Italia in cerca di affermazione personale e artistica in una società pregna di difficoltà. L’abbiamo intervistato.
“Una buona parte del testo nasce da un freestyle che stavo facendo una sera. In uno degli incontri amicali e musicali con il maestro Arnò, glielo feci sentire riarrangiato in una struttura provvisoria e il maestro è stato subito colpito. Le parole centravano a pieno il nucleo tematico del discorso, il rammarico sulla condizione di noi giovani al Sud. Da lì allora partimmo subito con l’idea di concretizzare il tutto, quindi avviammo la produzione e lui mi propose la collaborazione con Precious.”
Il brano è un manifesto di riscatto sociale e generazionale, una rivincita contro un sistema marcio. Il Mister Master Monster di Manduria, il cui soprannome è già un’allitterazione, attraverso una serie di giochi di parole prettamente hip-hop, tesse quindi una trama testuale incisiva e senza mezzi termini in cui pone al centro l’atavica questione meridionale che lede il nostro territorio da secoli. Il senso di rivalsa, il desiderio di fare scacco matto agli stereotipi, non deve essere scalfito dalla rassegnazione.
“Siamo rassegnati all’idea di non poter fare le cose qua, di dover andare per forza a Milano o a Roma. In realtà non è così, noi abbiamo prodotto il pezzo con una crew interamente di cervelli non fuggiti, a km 0. Chi è alle prime armi spesso lavora all’insegna del sentito dire, convinto che nella propria terra non si possa far nulla. È molto più facile ora, invece, rispetto a qualche anno fa. Mi viene da ridere, infatti, quando sento dire ‘non ci sono soldi’. Non servono soldi, servono ideali.”

Cresciuto a pane e freestyle, Mouri ha alle spalle una carriera di tutto rispetto. Vincitore al Run2Glory in finale contro Nerone nel 2014, è secondo a Reiven due anni dopo al Tecniche Perfette e al Mic Tyson contro Morbo nello stesso anno. A Londra, nel 2013, sfiora il primo posto all’End Of the Weak internazionale. Sebbene si sia un po’ allontanato attualmente da questa realtà, in verità ne rimane ancora vittima e il suo momento creativo ruota tutto proprio intorno al freestyle. Ma oggi è cambiato qualcosa nel panorama del freestyle e del rap italiano?
“Questo mondo musicale ha ultimamente subito un po’ l’influenza di internet. Le prime battle che ho visto in vita mia, le prime a cui ho partecipato, erano davvero un confronto tra stili. Non c’erano riferimenti, c’era l’identità genuina di ogni rapper. Oggi è tutto un po’ facilitato, puoi attingere a un’intera enciclopedia del freestyle online, prima invece eri spinto a inventare. Oggi però c’è un seguito e non è più un settore di nicchia, come quando ho iniziato io. Il rap è il nuovo pop, non in senso dispregiativo, è popolare nel vero significato del termine, del popolo. Rimane infatti forse l’unica cultura musicale che al momento resiste, senza subire un calo.”
Questa diffusione capillare, l’uscita da uno stato di protezione nella nicchia, ha causato una omologazione. Il rap è diventato saturo. Quale consiglio dare, quindi, alle nuove leve?
“Non cercare i propri riferimenti nel rap stesso. Bisogna distinguersi e portare la semplicità delle proprie giornate nel rap. Si vince quando ci si inventa qualcosa di nuovo e personale. Dicono che l’artista crea e il genio ruba, io non sono d’accordo. Secondo me, la creazione rimane sempre sublime nel mondo dell’arte.”
Il videoclip di Che peccato è onirico e visionario. Diretto da Mirko Dilorenzo, è stato girato a Manduria, nella terra madre di Mouri. In un piccolo centro, tanto diverso dalla realtà urbana, la gente è stata rapita dalla novità delle riprese, affascinata da questo mondo tanto particolare e distante, fuori dall’ordinario e dal quotidiano. Il legame con le origini è fondamentale per un ragazzo del Sud emigrato lontano da casa. Il ritorno è infatti un ricongiungimento con sé stessi, con il proprio io, il ritrovamento della pace.