Il rap è il nuovo cantautorato. Cinque canzoni che lo dimostrano

Il rap degli ultimi anni è cambiato, i rapper sono cambiati e forse anche il loro pubblico lo è. Le rime di prima erano messaggi irruenti, impetuosi, di sfogo e malessere che veniva urlato senza filtri, oggi i testi rap sono messaggi introspettivi, pacifici, quasi poetici. Il rap hardcore, figlio dell’hip hop americano, caratterizzato da versi arrabbiati e poco descrittivi, oggi è mutato in una delle forme d’arte musicale più ascoltate, superando addirittura il pop nelle classifiche.
“Il rap è una cosa per ragazzini”
All’inizio del 2000 la scena rap italiana vede protagonista il gruppo milanese Sacre Scuole con Jake La Furia, Gué Pequeno e Dargen D’Amico e la pubblicazione dell’album 3 MC’s al cubo, subito dopo Caparezza raggiunge il successo con Verità supposte. Intanto gli Articolo 31 si sciolgono, Neffa abbandona la scena rap ma salgono sul palco i Club Dogo e Fabri Fibra conquista tutti con “Mr. Simpatia”, fino al successone Tranne te del 2010. Da qui in poi prende piede il fenomeno del rap mainstream col debutto di Emis Killa, Salmo, Nitro, Fedez, Vacca, molti dei quali appartenenti al collettivo Machete. La loro musica ha un pubblico più ampio di quello degli anni precedenti, fatto anche di persone fino ad ora non appassionate al rap e i rapper diventano di tendenza, quasi commerciali. Il rap e il pop cantautorale iniziano a fondersi, nei panni di artisti come Franco126, Coez, Willie Peyote.
Proprio quest’ultimo, in un’intervista di qualche tempo fa, raccontava: «Io mi sento cantautore, anche le parti musicali a volte le compongo io, quindi perché non dovrei essere definito cantautore? A livello di testi, rispetto a quelli che vengono definiti cantautori, nei miei dischi come in quelli di molti altri rapper della mia “corrente” non ho nulla per cui sentirmi in difetto. Se i cantautori sono Dente, Colapesce, Brunori, beh Dutch scrive meglio, Ghemon scrive meglio e anche io ritengo di scrivere meglio di loro. Se il cantautore si giudica da come scrive, allora i rapper sono cantautori migliori dei cantautori stessi».
L’aspetto umano del rap
A volte, ascoltando alcune canzoni, si ha la sensazione di esserne l’autore o che l’autore stesso sia entrato senza bussare nei nostri pensieri e li abbia descritti in modo così veritiero che quasi abbiamo paura di prendere play. Uno dei testi dell’ultimo decennio rap, che rispecchia questa sensazione, potrebbe essere dei Club Dogo. All’ultimo respiro (2010) dipinge il mondo corrotto e malato in cui viviamo, che ci rende aridi e privi di sentimenti, come nel caso dei due protagonisti, smarriti in un vortice di autodistruzione: «Sei persa/E sono perso anch’io com’è che faccio a dartela una vita diversa?».
A passare dal rap arrabbiato e feroce alle rime amorose è invece Fabri Fibra con Stavo pensando a te (2017), ma forse anche prima. Il rapper ci regala un testo che evolve man mano introducendo un romanticismo sofferto e tormentato: «Vedi mi sentivo strano sai perché/ Stavo pensando a te/ Stavo pensando che/ Non avremmo mai dovuto lasciarci/ Vedi mi sentivo strano sai perché/ Stavo pensando a te/ Stavo pensando che/ Non avremmo mai dovuto incontrarci». La nostalgia di Fibra è la stessa che proviamo ascoltando il singolo di uno dei protagonisti dell’hip hop degli anni ’90, Piotta. Maledetti quegli anni ‘90 (2017) è un brano profondo, scritto dopo aver perso il padre e a lui dedicato, che riporta in vita l’atmosfera vissuta dalle generazioni dell’ultimo decennio del secolo scorso, sulla scia del rapporto padre-figlio, ricordato con malinconia: «Corri finché puoi, scivola sul ghiaccio/ Se perdi l’equilibrio farò d’ atterraggio/ Se affondi io ci sono afferrati al mio braccio/ In ogni crepa si fa spazio un raggio». Parlando di malinconia e di ricordi, non possiamo non citare Ieri l’altro (2019) di Franco126, un testo introverso, mesto, lontano dagli stilemi del rap ma proprio del cantautorato italiano, capace di esprimersi in modo autentico, dando voce alla sofferenza che si ha dentro con i versi: «E se passo in quella via/ Sai, guardo ancora in su/ E mi aspetto che ti affacci/ Un fischio e scendi giù/ E certe cose, no, non so spiegarle/ E forse Dio era girato di spalle». L’ultima menzione va a Marracash con TUTTO QUESTO NIENTE – Gli occhi (2020), quattordicesima traccia dell’album Persona, denso di significato e scritto in un momento estremamente difficile della sua vita. Nel brano il rapper canta: «Cento cose, mi tengo in moto/ Riempio il tempo e non colmo il vuoto/ Un giorno tutto questo niente sarà tuo/ Tutto questo niente sarà tuo». “Ho ucciso Marracash” racconta l’artista, che durante la scrittura del disco si è liberato dalla depressione che lo attanagliava, riscattandosi dal dolore e seguendo la propria rinascita.