Moon Knight, alzare la posta in gioco

9 aprile 2021.
Su Disney+ viene caricato il quarto episodio della serie Marvel The Falcon and the Winter Soldier, dal titolo Tutto il mondo ci guarda, e la puntata si chiude con una scena che nessuno prima di allora si sarebbe aspettato di vedere in un prodotto legato al Marvel Cinematic Universe: nell’assistere alla morte del suo migliore amico e partner, il sostituto Captain America John Walker (Wyatt Russell) si lancia all’inseguimento di uno dei criminali con cui stava lottando, e dopo averlo atterrato e reso inerme, incurante della folla che assiste all’intera scena, lo decapita brutalmente con lo scudo a stelle e strisce.

Questa scena introdusse un elemento fino ad allora quasi del tutto estraneo al franchise Marvel, la violenza, evidenziando la volontà degli studios di osare di più con la Fase 4, di rendere i loro prodotti più crudi e più accessibili ad un pubblico maturo, e Moon Knight rappresenta la più chiara manifestazione di tale volontà, tramite la rappresentazione potentissima di una violenza non tanto fisica quanto psicologica, e di quello che almeno finora è il personaggio più folle e disturbato di questo universo cinematografico: Marc Spector… e Steven Grant.
Se volete sapere perché addentriamoci nell’analisi della prima serie Marvel del 2022.
Moon Knight Club
“In Fight Club Edward Norton ha le turbe, non esiste nessun Tyler Durden!”
Così esordiva Caparezza nel suo brano Kevin Spacey, nel quale si divertiva a spoilerare in modo ironico il finale di molti famosi film.
Ecco, sostituite Fight Club con Moon Knight, Edward Norton con Oscar Isaac, e Tyler Durden con Steven Grant” e otterrete un riassunto soddisfacente della serie nel suo complesso.
La differenza principale tra la serie e il cult di David Fincher sta nel fatto che Steven Grant non è un personaggio generato dalla mente del protagonista, bensì una vera e propria seconda personalità che si alterna costantemente con quella principale del protagonista Marc Spector.

La sua interpretazione potrebbe essere paragonata a quella di Christopher Reeve nei panni di Superman e Clark Kent tanto è completa e variegata, al punto che talvolta sembra realmente di aver a che fare con due personaggi distinti, cosa che fa funzionare ancora meglio le scene oniriche in cui le due personalità interagiscono tra loro.
Per rendere al meglio la follia del protagonista però, un’efficace interpretazione deve comunque essere sorretta da una buona regia, e Mohamed Diab dà del suo meglio per far vivere in prima persona a noi spettatori le conseguenze del disturbo mentale di Marc/Steven: dai blackout del protagonista alle sue conversazioni allo specchio, fino ad arrivare a quel pugno allo stomaco del quinto episodio, nel quale vengono esplorate le cause del disturbo di protagonista, e tra una narrazione frammentata, vari piani temporali intersecati tra di loro e una potentissima performance da parte di Oscar Isaac, va definendosi un racconto tragico e struggente, condito da tematiche delicatissime finora totalmente estranee all’MCU come la morte di bambini o la violenza sui minori.

Parlando invece degli altri personaggi, diciamo che la serie non brilla per la varietà dei suoi comprimari, visto che questi si limitano sostanzialmente a Layla El Fouly, che grazie al carisma della sua interprete May Calamawy è già divenuta una fan favourite, Khonshu, il dio egizio della luna con la voce di F. Murray Abraham, e l’antagonista Arthur Harrow (Ethan Hawke), sui quali torneremo più avanti.
Insomma Moon Knight è praticamente un one man show che si regge quasi esclusivamente su Oscar Isaac, ma questa serie ha effettivamente qualcosa da raccontare, o è solo un gigantesco esercizio di stile per un grande attore?
Oscar Isaac e il Tempio Maledetto
Se le tematiche della malattia mentale e degli abusi infantili non fossero abbastanza per farvi interessare a Moon Knight, sappiate che a fare da sfondo alla vicenda è una delle culture più antiche e affascinanti del mondo, quella egizia, andando ad ampliare ulteriormente la cosmologia del sempre più vasto mondo Marvel, specialmente in vista dell’imminente Thor: Love and Thunder, che promette di approfondire lo status di tutti i pantheon che convivono in questo universo narrativo.
Si tratta dunque di un racconto fantasy dark in piena regola sulla falsariga de La Mummia, nel quale dei, mostri, magie e maledizioni la fanno letteralmente da padroni, e a spiccare su tutte le divinità sono il cattivissimo Khonshu, tanto spietato nei metodi quanto caustico nelle parole (e per questo irresistibile), e la vera villain della storia, Ammit (Saba Mubarak), così dedita a dispensare la sua giustizia sommaria ancor prima che i crimini avvengano da far apparire Khonshu come il meno peggio della situazione.

Le pedine consapevoli di questa diatriba tra divinità sono i loro rispettivi avatar, appunto il nostro Marc/Steven a cui si contrappone il rivale Arthur Harrow: la tematica sempre interessante della giustizia si preventiva si adatta bene a un personaggio modellato su quei grandi capisetta, come Jim Jones e David Koresh, che grazie al loro innato carisma e alla loro aura di spiritualità hanno spinto i propri innumerevoli seguaci a compiere atti raccapriccianti nel nome della loro fede deviata.
Un ruolo che sarebbe calzato a pennello su un attore versatile come Ethan Hawke, ma giunti alla fine della visione rimane l’amaro in bocca, forse per la sensazione che il reale potenziale di questo personaggio non sia stato realmente sfruttato.
Moon Knight infatti non è assolutamente un’opera priva di difetti, sui quali spicca un ultimo episodio troppo frettoloso e scialbo, decisamente distante dalla conclusione catartica che sarebbe stato lecito aspettarsi dopo il quinto episodio, e una risoluzione finale degli eventi avvenuta praticamente fuori scena a causa del ruolo decisamente troppo grande che si è scelto di dare a un elemento tenuto segreto fino alla scena post credits, forse in vista di una seconda stagione se non addirittura di un film dedicato al personaggio.

Insomma, come tanti altri prodotti Marvel, Moon Knight non va seppellito né santificato, eppure chi vi scrive spera che il franchise dei cinecomic punti maggiormente su questi tipi di storie nei prossimi anni: storie piccole, intimiste e circoscritte, che pur essendo ambientate in universi narrativi più vasti, rendano giustizia ad un personaggio preso nella sua unicità, e che non vivano esclusivamente della luce riflessa di altri film con camei e crossover forzati, e che soprattutto non si facciano problemi ad essere crudeli se serve a far sviluppare un racconto nel modo migliore.