Spider-Man: No Way Home – Un’analisi a mente fredda

Ed eccoci qui dopo mesi a parlare del film più chiacchierato del 2021.
Lo abbiamo atteso con trepidazione. Abbiamo speculato nelle maniere più impensabili sui rumor più insignificanti. Abbiamo sottoposto gli attori anche soltanto sospettati di aver preso parte al film ad una pressione disumana. E addirittura i soli trailer sono stati celebrati come dei veri e propri eventi.
E anche per questo abbiamo deciso di non parlarne subito.
Quello che ormai viviamo nella nostra quotidianità non è più un cinema fatto di mezze misure, di idee o sperimentazione, bensì è un cinema fatto di aspettative, di ricordi, di sensazioni e di tattiche già testate per fidelizzare il pubblico. In altre parole, il cinema oggi è fatto di hype, e Spider-man: No Way Home di hype ne ha avuto troppo intorno a sé, tanto da esserne stato esso stesso vittima.

La maggior parte delle persone sono entrate in sala già sapendo molto di ciò che avrebbero visto, anche ciò che sarebbe dovuto essere una sorpresa, caricandolo di aspettative non necessarie e preparandosi già a schierarsi chi da una parte e chi dall’altra.
Per questo abbiamo scelto di aspettare prima di parlare: perché neanche noi siamo immuni all’hype, ma ci eravamo accorti di come, a causa di quello stesso hype, coloro che santificavano o demolivano questo film lo stessero giudicando più o meno con la stessa obiettività con la quale una madre decanta la bellezza del volto del proprio figlio anche quando è sfigurato dall’acne.
Insomma, prima di parlarvene, volevamo essere sicuri di sapere cosa ne pensassimo di “Spider-man: No Way Home”, e credeteci quando vi diciamo che non è una cosa scontata.
Quindi, in attesa dell’uscita in home video dell’ultimo capitolo della trilogia di Jon Watts sull’Arrampicamuri, vediamo di tirare le somme sulla ragnatela di riflessioni che abbiamo tessuto negli ultimi mesi. Una ragnatela che, per inciso, sarà piena di SPOILER.
La fine dell’innocenza
Partiamo col dire che chi vi scrive ha sempre avuto le sue riserve sullo Spider-Man di Tom Holland. Certo, ad onor del vero va detto che tali riserve non erano dovute all’interpretazione del giovane attore britannico, quanto a scelte di sceneggiatura non proprio brillanti che sono andate in parte a compromettere questa versione del Tessiragnatele: tra un’eccessiva dipendenza dalle vicende degli Avengers, una rimozione pressochè totale di qualunque elemento drammatico e un evidente abbassamento del target di riferimento rispetto alle versioni di Sam Raimi e Marc Webb, è stato difficile riconoscere nel Peter Parker propostoci dal MCU molte delle caratteristiche che lo hanno reso un così grande personaggio sulle pagine dei fumetti.
Per questo, adesso, è con una non indifferente dose di sorpresa che chi vi scrive afferma come l’Uomo Ragno di Tom Holland sia senza dubbio l’elemento più riuscito di Spider-Man: No Way Home.
Se in Homecoming il personaggio risultava letteralmente snaturato per i primi tre quarti del film, e se in “Far From Home” le cose sembravano andargli fin troppo bene (nonostante il nostro cominciasse finalmente a sentire sulle proprie spalle il peso dell’essere un eroe), questo terzo capitolo ha finalmente il coraggio di metterlo in quelle situazioni critiche che gli amanti dei fumetti conoscono fin troppo bene, di scuotere fin nelle fondamenta il suo universo narrativo, di porlo davanti a scelte dolorose come quella tra il suo dovere e la sua felicità.
In altre parole, in No Way Home le parole “da un grande potere derivano grandi responsabilità” iniziano ad assumere un senso anche per lo Spider-Man di Tom Holland, il quale smette finalmente di essere solo un simpaticone, avendo modo di rivelare le sue sfumature più cupe e offrendo un’interpretazione molto più variegata ed efficace.

E attenzione, non è solo il personaggio di Peter Parker in sé per sé a ricevere questo trattamento rinvigorente, ma tutto ciò che lo riguarda, dal suo arco narrativo, sul quale si regge letteralmente l’intera pellicola, ai suoi comprimari, che passano dall’essere i punti deboli dei film precedenti al rubare letteralmente la scena a Holland.
Basti pensare alla MJ di Zendaya, la quale dopo essere partita come lo stereotipo dello stereotipo della studentessa asociale con la puzza sotto al naso, è finalmente pronta a privarsi della sua stucchevole maschera di finto cinismo e a mostrare la sua vera sensibilità al pubblico come allo stesso Peter, per il quale diviene la compagna perfetta e un sostegno indispensabile, mentre la loro relazione risulta finalmente credibile e coinvolgente.
E che dire poi di zia May?
Non prendiamoci in giro, l’unico vero contributo della cara zietta interpretata da Marisa Tomei all’economia della saga è stata la possibilità di fare anche battute sulle milf, ma per il resto, questa versione del personaggio è assolutamente insulsa, specie se confrontata con le immense iterazioni di Rosemary Harris e Sally Field… o almeno lo è stata fino all’uscita di questo film, nel quale il personaggio assume finalmente una sua profondità, divenendo una vera e propria bussola morale per Peter, e influendo in modo non indifferente sulle scelte che si ritroverà a dover compiere… peccato solo che a causa della sua dipartita ora ci ritroviamo a dover dire che la zia May del MCU sia di fatto durata un solo film.
Nota di demerito invece per il Ned Leeds di Jacob Batalon, il quale continua ad essere un comic relief irritante ed infantile nonostante gli inutili tentativi di dargli un ruolo attivo nella trama tramite la tanto conveniente quanto mal gestita sottotrama riguardante la sua predisposizione per le arti mistiche.

Insomma, questo Spider-man e i suoi comprimari funzionano, ma se in un film fatto di incantesimi, battaglie mozzafiato e folli supercriminali usciti fuori da universi narrativi che non vedevamo da una decade la cosa più riuscita sono la fidanzata e la zia del protagonista… Beh, ecco che il castello di carte eretto da John Watts comincia a traballare.
Nel multiverso del fanservice
Diciamocelo chiaramente, abbiamo tutti quanti perso un battito nel riguardare il volto ghignante e occhialuto del Dottor Octopus di Alfred Molina al termine del primo trailer di Spider-Man: No Way Home. Non era soltanto la conferma del graditissimo ritorno di una vecchia conoscenza, ma anche e soprattutto la conferma di come la trama del film avrebbe ruotato intorno ad un concetto tanto intrigante quanto insidioso: il multiverso.
Poveri ingenui. Non potevamo immaginare come quello che si prospettava come il più grande pregio del film si sarebbe rivelato il suo più grande difetto.

Ebbene sì ragazzi: tra un intreccio a malapena accennato, una sceneggiatura confusionaria chiaramente passata attraverso un numero incalcolabile di modifiche e rimaneggiamenti, e una gestione tutt’altro che brillante degli antagonisti, la scelta di rendere il multiverso il centro della narrazione si è rivelata controproducente per la riuscita del film.
Il minutaggio riservato a Green Goblin (Willem Dafoe), Doctor Octopus (Alfred Molina), Electro (Jamie Foxx), l’Uomo Sabbia (Thomas Haden Church) e Lizard (Rhys Ifans) è così scarso che anziché venire in qualche modo valorizzati dalle loro interazioni o da quelle con il Peter Parker di Tom Holland, risultano invece essere l’ombra di sé stessi.
Il loro comportamento è spesso insensato ed incoerente, le loro motivazioni per andare contro Spider-man deboli e traballanti, e nella loro gestione sono presenti addirittura dei buchi di trama: viene ad esempio da chiedersi come facciano il Dottor Octopus e l’Uomo Sabbia a conoscere la vera identità del Green Goblin, o come sia possibile che Electro sia presente nel film visto che l’incantesimo del Dottor Strange avrebbe dovuto evocare solo individui a conoscenza della vera identità del Tessiragnatele.
Certo, è innegabile come il Goblin di Dafoe spicchi su tutti gli altri grazie all’abilità del suo interprete e alla sua gestione decisamente più riuscita, ma ciononostante il suo spazio nella sua pellicola è così risicato e le sue azioni contro Peter così poche (per quanto d’impatto), che non solo la sua apparizione in No Way Home non aggiunge sostanzialmente nulla a quanto mostrato nel primo capitolo della trilogia di Raimi, non solo è difficile identificarlo come l’antagonista principale, ma addirittura risulta difficile dire che ci sia un antagonista principale vero e proprio.
Anzi a dire il vero risulta proprio difficile dire che ci sia una trama: arrivati alla fine, la sensazione è che il film si sia divertito in maniera quasi sadica a mettere Peter in una serie di situazioni difficili allo scopo di farlo finalmente maturare in Spider-man, ma senza che alla base di queste situazioni ci sia un racconto solido e ben costruito.

In questo senso, la scelta di utilizzare il multiverso all’interno di questo film si è rivelata un’arma a doppio taglio: da un lato ha permesso tutta una serie di ritorni e di crossover che hanno stimolato gli impulsi più bassi e animaleschi di qualunque nerd, ma dall’altro lato l’attingere materiale da film distaccati dalla saga del MCU e divenuti dei veri e propri cult ha costretto il regista Jon Watts a osare il meno possibile con personaggi che rispetto alle loro precedenti apparizioni restano sostanzialmente invariati.
Ed è qui che entra in gioco l’elemento sul quale avreste sentito un parere fin dal momento in cui avete aperto questo articolo: il ritorno di Andrew Garfield e Tobey Maguire.
È innegabile che momenti come il primo incontro tra i tre Spider-men, il loro scontro con i rispettivi villain o il salvataggio di MJ da parte del Peter di Garfield (con conseguente redenzione del personaggio per la morte di Gwen Stacy) siano pura pelle d’oca, ma superata l’emozione iniziale è impossibile per chi vi scrive non pensare come il reale potenziale di un incontro tra i tre Tessiragnatele cinematografici non sia stato pienamente sfruttato, e questo a causa di un elemento del quale non ci siamo resi conto subito. Se in un film del 2021 ci ritrovassimo ad assistere al ritorno di due personaggi che non vediamo rispettivamente da quattordici e sette anni, la prima cosa che ci chiederemmo è come siano cambiati e si siano evoluti questi personaggi dall’ultima volta che li abbiamo visti, e qui sta il grande problema della gestione di questi grandi ritorni: il film ci dice che è passato tanto tempo, che questi personaggi sono cambiati, che lo Spider-man di Maguire ha trovato una propria stabilità e quello di Garfield è divenuto più cupo e tormentato… il problema è che non ce lo mostra mai. Nessuno di questi personaggi sembra essersi realmente evoluto, e le possibilità di farli interfacciare da un punto di vista emotivo con il Peter Parker di Tom Holland vengono quasi sempre messe da parte per lasciarsi andare ad easter egg che, come era prevedibile, ha portato alla nascita (o al revival) di un numero incalcolabile di meme.

Insomma, Spider-man: No Way Home vive come tanti altri prodotti di pregi e difetti.
È senza dubbio il capitolo della saga di Jon Watts che meglio adatta il personaggio originale, ma è anche il più problematico dal punto di vista narrativo.
Alcuni personaggi sono gestiti in maniera ottima, ma di altri ci ricordiamo a malapena la presenza.
È un efficace omaggio a vent’anni di film sul personaggio, ma è impossibile non avere la sensazione che questa non fosse la conclusione naturale per la trilogia, una trilogia che ha visto uno Spider-man liceale affrontare nemici secondari per poi ritrovarsi tutto d’un tratto ad affrontare una crisi multiversale.