Albiceleste con il cuore a Roma: Diego Perotti

Nato a circa trenta kilometri da Bueons Aires, vincitore dell’Europa League con il Siviglia ma romano “d’adozione”. Diego Perotti ripercorre parte della sua carriera nella nostra intervista.
Ciao Diego e benvenuto su 2duerighe.com, ti ringraziamo per il tempo dedicatoci, iniziamo subito con le domande. Hai giocato in Argentina, in Spagna, in Italia e in Turchia. Senza nulla togliere alle altre, quale nazione ti è rimasta più nel cuore?
Lascerei da parte l’Argentina, è casa. L’Italia è dove sono nati i miei figli ed è dove abbiamo deciso di rimanere con la mia famiglia perché è dove ci siamo trovati meglio. La nascita dei bambini ha cambiato tutto e teniamo molto a Roma.
Hai collezionato un numero importante di reti, qual è quella a cui sei più legato?
Ce ne sono due. Quella dell’addio di Francesco la metto sicuramente al primo posto.
La seconda è quella contro il Qarabag, per qualificarsi primi nel girone di Champions anche perché negli stacchi di testa non ero proprio fortissimo.
Nella carriera di un giocatore ci può sempre essere un infortunio, una “partita no” o i fischi dello stadio. Qual è stato il momento più difficile per la tua carriera?
Sicuramente in Turchia quando ho avuto la rottura del tendine, il flessore. Fino a quel momento, avevo avuto tanti infortuni, ma sempre piccole cose e mai gravi. Perciò, quando ho subito quello è stato molto brutto, perché il recupero è stato lungo e tutto sembrava solo peggiorare.
Torniamo a Roma dove hai fatto 106 presenze. Qual è stata la partita più bella?
L’ultima di Francesco. Lo stadio era pieno, è stata pazzesca, la più emotiva per me.
Ogni nazione ha il suo derby. Qual è il derby che hai sentito di più, giocando nelle varie nazioni?
Purtroppo quello della Turchia non l’ho giocato. Ma ho sentito sicuramente Roma-Lazio e Siviglia-Betis da giocatore. Siviglia perché è una città piccola, si “paralizza” per la partita e quello di Roma, fortunatamente ho fatto molte partite qui riuscendo anche a segnare.
Cosa ti manca dell’Olimpico?
Tutto, già il fatto che resteremo qui fa capire quello che proviamo, sia io e che tutta la mia famiglia. Mi mancano gli allenamenti, il centro sportivo. Faccio ancora fatica andare a vedere le partite allo stadio, perché ci tengo tanto. Non riesco a digerire il fatto di stare fuori. Sono stato accolto benissimo sin dall’inizio, quindi per me è un’emozione tornare per quelle strade dove ancora mi salutano affettuosamente.
Chi è il calciatore più forte con cui hai giocato e quello con cui vorresti giocare in questo momento?
Lasciando Messi da parte, sicuramente Francesco e Riquelme. Erano molto diversi, ma li ho incontrati entrambi alla fine della loro carriera, si allenavano tutti i giorni. Non si potevano paragonare con nessuno. Ad oggi, mi piacerebbe avere un centravanti come Haaland, giocatore ideale per fare cross e tanti assist.
Chi ti ha dato il soprannome “Monito” e perché?
Non c’è una storia particolare. Viene da mio padre perché quando era giocatore anche lui lo chiamavano “El mono” che vuol dire “la scimmia”. Quando ho cominciato a giocare, mi hanno chiamato “el monito” perché ero suo figlio.