Presidenziali americane: l’incredibile follia dei grandi donatori
La corsa alle Presidenziali 2024, oltre Atlantico, potrebbe essere la più onerosa in assoluto, nonostante si fosse già detto che quelle del 2020 avevano battuto ogni record.
Ad ogni elezione, i miliardari americani fanno piovere i loro milioni sul campo democratico o repubblicano, nella speranza di pesare un giorno nei dibattiti e sulla scena politica.
A otto mesi dalle Presidenziali americane, non c’è più tanta suspense: la partita del 2020 si replicherà tra i due vecchi Presidenti Joe Biden e Donald Trump.
I candidati saranno ufficialmente designati questa estate, da lì si scateneranno in meeting e trasferte, enfatizzati da clip e manifesti che mostreranno una campagna sempre più aggressiva e piena di immaginazione. Ma per finanziare il tutto, pioveranno soldi. Tanti.
In Europa non abbiamo idea delle dimensioni incredibili che hanno raggiunto le campagne elettorali in America. Dal 2010 non c’è un tetto alle spese. Con la fine del limite ai finanziamenti alle campagne in seguito al caso Cittadini Uniti contro la Commissione elettorale federale, attraverso la sentenza emessa dalla Corte suprema degli Stati Uniti il 21 gennaio del 2010, la corsa al denaro e ai donatori ha subito una vera accelerata.
Se le donazioni dei cittadini sono limitate per i candidati, il partito e la campagna, altre strutture possono raccogliere i soldi in modo illimitato e finanziare indirettamente le campagne Presidenziali: i super PAC.
Nel 2008, Barack Obama aveva già fatto esplodere i misuratori, con una campagna stimata a 750 milioni di dollari, unicamente costruita su fondi privati.
Poi le sentenze Sprechino.org vs Federal Electoral Commission (FEC) e Citizen United vs FEC del 2010 hanno dato il colpo di grazia permettendo la creazione dei super PAC. Le somme spese per ogni candidato si sono gonfiate anno dopo anno. Le presidenziali del 2020, che avevano incoronato il democratico Biden contro l’uscente Donald Trump, hanno battuto ogni record, con un totale, per l’insieme dei candidati, di più di 10 miliardi di dollari.
Se le Presidenziali americane sembrano andare a briglia sciolta, esistono comunque una serie di regole sulle donazioni da parte dei cittadini. Ognuno ha la possibilità di donare 3.300 dollari a un candidato per le primarie, e riversare la stessa cifra per le elezioni di novembre. Durante il corso dell’anno, il cittadino può anche donare 5.000 dollari al PAC, l’organizzazione privata che appoggia ufficialmente il candidato e la sua campagna, ma anche 10.000 dollari al partito su scala locale, e 41.300 dollari al partito su scala nazionale.
Un totale di 63.000 dollari di doni l’anno.
Un’ultima forma di donazione può raggiungere i 124.000 dollari: si tratta di versare denaro per le spese specifiche del partito legate alla convention nazionale, al riconteggio, alla contestazione dei voti e alle sedi del quartier generale del partito.
Ma cosa sono le PAC? Le Political Action Committees sono delle entità create unicamente per partecipare finanziariamente a una campagna politica per un partito o per un candidato. Ogni partito può avere diversi PAC, ma la legge limita le donazioni da parte delle imprese e dei sostenitori.
Le super PAC sono invece dei fondi indipendenti dei candidati, del partito e della campagna. Nel 2010 la Corte Suprema ha ratificato il suo statuto, togliendo peraltro il tetto al finanziamento. Aveva giudicato che non ci fossero motivi per limitare le donazioni e spese di queste strutture, visto il loro carattere “esterno” alla campagna. Unica condizione posta loro: le donazioni devono essere pubbliche.
Nei fatti, le super PAC non hanno di indipendente che il nome. Sono tutte impegnate pro o contro un candidato, solo più o meno direttamente. Molte super PAC sono dirette da ex direttori ufficiali di campagne passate. Questo sistema offre grande libertà ai supporter di ogni campo. Si può arrivare fino a divulgare fake news sull’avversario, visto che il candidato e il super PAC non hanno nessun legame giuridico.
Viene da chiedersi se la vita politica americana sia ormai unica prerogativa dei miliardari.
In 15 anni, le elezioni Presidenziali americane, che si tengono ogni 4 anni, si sono lentamente trasformate in negoziati ed equilibri di potere con un solo obiettivo: chi avrà più miliardi per finanziarsi.
Dall’elezione di Barack Obama nel 2008, le campagne sono basate esclusivamente su fondi privati. Milioni di dollari di doni, che provengono dal cittadino medio americano, considerato come “piccolo donatore” con somme inferiori a 200 dollari, ma soprattutto di grandissime fortune americane che fanno piovere dollari sui candidati ad ogni elezione, con la speranza di ottenere qualcosa in cambio una vola giunti al traguardo. Visto che le donazioni delle super PAC sono pubbliche, è facile conoscere i benefattori.
Tra loro, nomi famosi del mondo della finanza, dei media, del tech o dell’industria che donano sia in ambito Democratico che Repubblicano, a volte anche ai due partiti insieme. Durante le elezioni del 2020, che vedevano per la prima volta Donald Trump opporsi a Joe Biden, i venti sponsor più generosi hanno finanziato le campagne, in totale, per più di 2 miliardi di dollari.
Nomi celebri appaiono tra i benefattori di entrambi i campi. Tra i repubblicani, troviamo Sheldon Adelson, deceduto nel 2021, magnate dei casinò di Las Vegas, considerato allora come il “Kingmaher” della destra americana. Troviamo anche Stephen Schwarzman, a capo del fondo di investimenti Blackstone, o ancora Charles Schwab, leader della società omonima di brokeraggio.
Stessa storia lato Democratico, dove i pezzi grossi della tecnologia e della finanza si sono mostrati molto inclini a sostenere Biden nel 2020, con personalità come Dustin Moskovitz, uno dei più giovani miliardari del mondo, che ha partecipato alla nascita di Facebook.
Piccola curiosità: Elon Musk ha scritto su “X” che a questo giro non avrebbe finanziato nessuno dei due candidati (6 marzo 2024).
Figure emblematiche del paesaggio economico americano, che a noi dicono poco, ma che sono potenti come pochi.
Secondo gli esperti in molti donano ancora ai due campi, perché in caso di coabitazione tra Presidenza e Congresso, bisogna salvare capra e cavoli.
I più generosi, si aspettano un ritorno quasi immediato sul loro investimento. Ci sono tre motivi che portano i miliardari alla donazione: il credo politico, la speranza di favorire un determinato settore economico, e infine l’accesso ai politici e a delle posizioni di rilievo per loro stessi o per i famigliari stretti.
Concretamente, i donatori aspirano ad influenzare in modo diretto la politica del candidato scelto, soprattutto attraverso i membri del Congresso per spingere a modificare il contenuto di un testo di legge, a volte attraverso un’attività di lobbying ai limiti della correttezza. Qualcuno riesce veramente a tenere letteralmente la penna in mano e scrivere parte delle proposte di legge.
La politica di Joe Biden nei confronti del settore dell’High Tech era stata abbastanza chiara in questi ultimi 4 anni. Durante la sua campagna e all’inizio del suo mandato, aveva promesso di mostrarsi determinato nei confronti dei Gafam (o big 5: Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Apple) a colpi di leggi antitrust e sulla protezione degli utenti. Ma, avvicinandosi la fine del suo mandato, il Presidente si è mostrato meno bellicoso nei confronti delle Big Tech, visto che alcuni dei loro proprietari avevano finanziato la campagna del 2020 (Google, Microsoft, Apple, Facebook, Amazon, e in piccola parte Twitter).
Ma i miliardari americani trovano anche in questi doni un mezzo per assicurarsi, un domani, un posto al sole. Tra le centinaia di nuovi collaboratori che il Presidente si trascina a Washington, si trovano innumerevoli persone nei confronti delle quali è debitore, così come numerosi loro parenti più o meno stretti.
Una volta lanciata la loro carriera nell’Amministrazione, come consigliere o ambasciatore, hanno la sicurezza di trovare poi un lavoro di prestigio nel privato.
La porosità tra ambiente politico e quello degli affari è ormai tale che non è più tanto raro vedere le grandi fortune americane passare da un ambito all’altro: quando si è super ricchi e si è diretto una tra le società più prestigiose al mondo, la posizione più attraente è quella di Presidente degli Stati Uniti. Testimone ne è il magnate dei media Michael Bloomberg, candidato Presidente in campo democratico alle elezioni del 2020. Donald Trump, prima di diventare 45mo Presidente degli Stati Uniti, è stato donatore regolare in campo democratico, vicino ai Clinton.
Dal 2010, moltissime voci, politiche o provenienti dalla società civile, si sono alzate contro il finanziamento, sempre più folle, delle elezioni presidenziali. Due sono le critiche più importanti rivolte al sistema attuale.
La prima è che impedirebbe l’emergere di un terzo partito, al di fuori dei tradizionali Democratico e Repubblicano. Nessun altro partito può farsi strada per mancanza di mezzi e nessun ricco donatore ha interesse ad investire su qualcuno che non può dargli un tornaconto.
Questo meccanismo tipico degli Stati Uniti porta anche ad un miscuglio di sentimenti (e risentimenti) in seno ad uno stesso partito, per mancanza di campi intermedi. Paradossalmente, ci sono più punti in comune tra i centristi dei Democratici e Repubblicani americani che tra gli estremi in seno a ciascuno di questi partiti. Ma nessuno ha interesse a fare secessione e trovarsi in un piccolo partito senza voce, né voti, e soprattutto senza mezzi.