Emergenza Mediterraneo. Intervista a Valentina Brinis

Esperta di politiche migratorie, ha collaborato per anni con l’associazione “A Buon Diritto” vivendo quotidianamente le difficoltà di un migrante in Italia, già Integration Expert presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), ora advocacy officer di Open Arms, con la quale è partita, a bordo dell’imbarcazione Astral, nel Mediterraneo Centrale. Da questo “viaggio” è poi nato “Come onde del mare. Diario di bordo di un’esperienza umanitaria”, edito da Castelvecchi. Abbiamo scambiato due chiacchiere con Valentina Brinis su politiche migratorie, vecchi e nuovi flussi e su come Italia ed Europa, anche alla luce delle nuove leggi di governo, vogliano affrontare la situazione.

Buon pomeriggio dott.ssa Brinis, è di alcune settimane fa la conversione in legge del Decreto Piantedosi che limita, di fatto, la possibilità di intervenire in mare più di una volta con il pretesto di far rientrare la nave soccorritrice nel porto più sicuro “senza ritardo”. Qual è la sua idea in merito?
Non sono una giurista, quindi non mi pronuncio in questo senso, ritengo però sia molto importante notare il senso politico di questo decreto, che credo rimandi al fatto, non nuovo, di raccontare che le operazioni umanitarie siano effettuate da personale non preparato che agisce al di fuori di un ordinamento giuridico: questo non è assolutamente così. Come provato dalla ventina di procedimenti amministrativi e giudiziari degli ultimi anni che hanno visto coinvolte tutte le organizzazioni umanitarie del soccorso in mare si è dimostrato un principio molto chiaro: il comandante di una nave, qualunque essa sia, ha l’obbligo di trarre in salvo le persone che si trovano in difficoltà. Bisognerebbe riflettere sul fatto che la priorità sembra sia quella di comunicare che le ONG, comportandosi in maniera differente dalla normativa, sostanzialmente siano organizzazioni criminali. Ed è questo il problema vero, in quanto mette in discussione il principio sociale del soccorso in mare. Una politica che vuole costruire una società accogliente e inclusiva dovrebbe preoccuparsi di proteggere questo principio. Anche l’attuale opposizione dovrebbe preoccuparsi di quello che succede a livello governativo e parlamentare. A me preoccupa però l’impatto sociale di questo provvedimento che, ricordiamoci, ha due aspetti da tenere in considerazione, è partito come decreto numero 1 del nuovo governo, si noti dunque il valore simbolico e, in secondo luogo, va notato come nel titolo si faccia riferimento alla gestione dei flussi migratori ma, leggendo il testo, è evidente che il problema dei flussi migratori non è contemplato.
Lo scorso novembre c’è stato il tacito rinnovo dell’accordo Italia-Libia, in vigore ormai dal 2017, come pensa dovrebbe comportarsi il governo attuale? Ha qualcosa da recriminare ai governi precedenti?
Avere degli accordi con determinati paesi ritengo sia importante, il problema della Libia è che parliamo di un paese che sostanzialmente è ancora diviso in due, quindi quando parliamo di accordo Italia-Libia, non sappiamo chi sia il nostro vero interlocutore. La finalità principale era quella di mettere in sicurezza le nostre frontiere attraverso il blocco dei flussi migratori. Un blocco che, in verità, dovrebbero attuare le forze libiche. Io non credo che questo provvedimento politico si sia rivelato efficace per la tutela dei diritti umani o abbia favorito spostamenti regolari e sicuri. Ricordiamoci sempre che, ad oggi, attraversare le frontiere di tutto il mondo comporta un pericolo non indifferente, tra cui quello, parlando di Mar Mediterraneo centrale, di perdere la vita. Bisogna rivedere, a mio avviso, questi patti anche coinvolgendo le organizzazioni del terzo settore che hanno un punto di vista molto forte per quanto accade nel Mar Mediterraneo, in qualità di osservatore di primo piano. Sarebbe anche necessario valutare l’operato della Guardia Costiera libica alla quale forniamo le motovedette, smettendola di fare politica di propaganda senza dare peso al fenomeno sociale dei flussi migratori che deve essere governato.

Cambiamo totalmente scenario, è evidente che l’esodo scaturito dal conflitto Russia-Ucraina sia stato percepito in maniera diversa rispetto a un flusso migratorio dai paesi dell’Africa Settentrionale o del Medio-Oriente, perché?
C’è ed è basato sul colore della pelle, nella narrazione collettiva che io vedo, legata ai mass-media, i dibattiti sui flussi del Mediterraneo sono legati a parole come “invasione” e “povertà totale”, dando a intendere che queste persone vengono qui per rubare il nostro stato di Welfare, identificandole come quelle che ci tolgono qualcosa. Per quanto riguarda gli ucraini, invece, si è parlato di una popolazione quasi esclusivamente femminile che ha edulcorato la narrazione. Ma, ripeto, conta tanto il colore della pelle, conta la guerra alle porte che ha fatto paura a tutti. La volontà di accogliere è nata dunque da un processo di immedesimazione. Io l’ho percepita, quando sono stata in Polonia, vedendo le mie colleghe e i miei colleghi polacchi vivere paure concrete.
Qual è, a suo avviso, il futuro prossimo delle politiche europee in merito all’immigrazione?
Non viene ancora valorizzato quello che è il principio di solidarietà tra paesi. O si arriva a discutere seriamente di questo passaggio o tutto sarà sempre sbilanciato verso un paese o un altro. L’Europa sulla carta ha tanti bei propositi, a partire proprio dal fatto che ha una bellissima Carta sull’integrazione, sull’accoglienza; a leggerle sono molto belle, il problema è la loro applicazione. Parliamo comunque di una molteplicità di paesi con una molteplicità di governi diversi, idee diverse accomunate dal fatto che si da priorità più che a una politica d’integrazione, alla sicurezza dei propri confini.
A seguito della missione con l’Astral che narra nel suo libro, com’è cambiato il suo rapporto con il mare?
Forse si è giustificata la paura del mare, inteso come frontiera liquida. Il mare che noi vediamo è il mare che produce vittime, difficile non pensarci quando lo si guarda; quindi, penso che quell’esperienza mi abbia dato la forza di continuare a guardare le cose con i miei occhi, permettendomi di capire che questo è quello che voglio continuare a fare. Quando vivi alcune esperienze in prima linea, capisci perché nella tua vita hai preso delle decisioni rispetto ad altre. Sono comunque convinta di aver fatto l’esperienza migliore nel momento migliore, in un periodo in cui ero demotivata. Ricorderò quell’esperienza sempre con molto affetto.

Per il momento svolge l’attività di advocacy officer presso Open Arms, ponendosi come mediatrice tra alte cariche istituzionali e chi concretamente svolge le operazioni di salvataggio in mare, pensando al futuro, a quale dei due poli vorrebbe avvicinarsi?
Io vorrei che figure come la mia avessero la possibilità di avere incarichi istituzionali, anche solo per una legislatura, in modo tale da dar voce a un mondo che è scarsamente rappresentato, perché purtroppo vince ancora il gioco della politica dei partiti. Sarebbe opportuno, non per diventare un nome-bandiera ma perché c’è veramente bisogno di rappresentare gli operatori umanitari che sono veri mediatori tra la persona e la società; la stessa società che dovrebbe accogliere. Quando ci sono stati i tagli dei posti in accoglienza molti operatori sono rimasti senza lavoro. Che rappresentanti avevano in Parlamento? Praticamente nessuno. Per questo, ripeto, o qualcuno dei partiti si forma, realmente in merito o qualche spazio andrebbe dato anche a noi. Il libro è nato anche per questa esigenza, l’importanza di dare voce al nostro lavoro, lasciare intendere qual è il motivo per cui lo svolgiamo e credo che “Come onde del mare” abbia permesso di aprire una finestrella su questo mondo, anche se bisognerebbe aprire un portone e molto di più.