Il Novecento e quel rompicazzo di Mughini

Edito per Marsilio, I rompicazzi del Novecento è una delle guide più irriverenti a quel Novecento eretico costellato da figure controverse e non sempre ben digerite dalla critica…anzi.
Mughini, nel suo trentacinquesimo o trentaseiesimo libro, raccoglie e descrive alcune delle icone più impertinenti del ‘900 con una penna degna di un vero rompicazzo.
Benvenuto Giampiero e grazie per aver accettato quest’intervista.
Nel capitolo dedicato al filone culturale rumeno afferma di aver comprato solo due libri in italiano di Cioran, tutti gli altri li ha comprati in lingua francese aggiungendo “sarà pur valsa a qualcosa la mia laurea in lingua e letteratura francese, con cui per tutto il resto della mia vita mi ci sono pulito le scarpe” aggiungendo poi che post laurea non ha più messo piede in ateneo.
Cosa ne pensa dell’istruzione italiana?
E’ un discorso complesso da esplicitare in un solo pensiero, diciamo che tutto il filone delle lauree umanistiche è stato totalmente declassato, personalmente con la mia laurea, nelle migliori delle ipotesi, avrei potuto insegnare nelle scuole medie il francese. Le lauree scientifiche, ieri ma ancor più oggi, ti aprono le strade; più che lauree direi le competenze oltretutto.
Ad oggi una laurea umanistica è una pura perdita di tempo, tenendo conto poi che se si vuole diventare scrittori non serve una laurea…Prezzolini non aveva preso nemmeno la licenza liceale ed è sicuramente tra le colonne culturali del Novecento.
Un suo collega ha affermato in un libro che in Italia non è vero che si legge poco, si legge male.
Si trova d’accordo con quest’affermazione?
Lo dicono in tanti ma non si può avere la presunzione di insegnare agli altri come leggere, ognuno legge secondo le sue caratteristiche. Le donne ad esempio leggono di più i romanzi, il successo del romanzo in Italia è in larga parte determinato dal pubblico femminile mentre, per fare un esempio a me doloroso, la saggistica colta, quella a me più cara, ha un terzo dei lettori rispetto a vent’anni fa.
C’è un pubblico ormai abituato ai social, alla comunicazione rapida, ai colpi ad effetto che chiaramente non legge la saggistica colta, quella che dovrebbe insegnarti qualcosa ma molti non hanno alcuna intenzione di imparare anzi amano che gli vengano ripetute quelle quattro fesserie.
Il neo femminismo vive di fesserie, il fatto che le donne avessero pari diritti e pari qualità degli uomini era già chiaro alla mia generazione, le donne che hanno dato vita al femminismo negli anni sessanta e settanta meritano il più gran rispetto, quelle che oggi vivono delle famose quattro fesserie mi fanno addormentare.
Nel secondo capitolo del libro, partendo da due colonne portanti della cultura come Longanesi e Montanelli, ci racconta la figura di Giovanni Ansaldo. Secondo lei perché una figura come quella di Ansaldo non è conosciuta ai molti?
E’ sicuramente meno celebrato rispetto ai due citati ma come qualità professionale e di pensiero è a livello di Montanelli e Longanesi.
Pagò lo scotto di essere quasi un partigiano, anzi un aedo di Mussolini ma lo divenne perché davvero ci credeva, vedeva il fascismo come una nota positiva per l’Italia; fu un gobettiano, uno che prese tante botte dai fascisti, poi si converte al “mussolinisimo” fino alla caduta del Duce, combatte nell’esercito badogliano contro i tedeschi, viene fatto prigioniero e si fa due anni carcere.
Ha pagato sia da antifascista che da fascista, è stato un rompicazzi, uno che non si è piegato alla legge del o tutto bianco o tutto nero.
Revisione dell’ideale: un percorso che, giunto ai 30 anni, lei fece mettendo in discussione l’extraparlamentarismo di sinistra. Quanto l’ideale politico preclude orizzonti culturali al “militante”?
Extraparlamentarismo si ma non ho mai pensato che all’epoca i partiti di sinistra non servissero a nulla, non ho mai militato in un gruppo specifico però ero di una sinistra molto marcata capendo poi che non era quello il punto.
Ho scritto un libro che per me è un po’ uno spartiacque tra un prima e un dopo, Compagni addio, del 1987 ma le cose che ho scritto in quel libro già le pensavo dieci anni prima, per poi scriverlo in venti giorni.
L’ideale politico, qualora si trasforma in ideale ideologico è una vera benda sugli occhi, ti impedisce di notare ogni aspetto del reale, ogni episodio del reale non viene più guardato nella sua originalità…questa benda ideologica ti fa vedere o tutto bianco o tutto nero. L’ideologia nella sua giusta accezione è la più grande nemica della cultura.
E’ interessante come dal raccontare un personaggio riesce ad inserire delle sue disamine personali, un esempio lo troviamo nel capitolo dove ci narra Pintor.
“…non so bene quello che sono diventato e semmai so benissimo quello che non ho voluto diventare”
Cosa non è voluto diventare Giampiero Mughini?
Un piacione, non sono diventato uno che dice le cose solo per far piacere ad un pubblico.
Saviano, ad esempio, ha un suo pubblico numeroso al quale lui dice sempre le stesse cose con voce roboante, il pubblico è felice e compra i suoi libri.
I lettori de “Il Fatto Quotidiano” che di fatto è un giornale molto vivo ma vende ad un pubblico che ogni mattina vuole sentire quelle cose…ecco questo tipo di lavoro “da piacione” non è mai stato il mio caso.
Sono andato addirittura all’opposto, venendo dalla sinistra, mi sono trovato in un giornale, dove sono stato benissimo, quale Libero dove potevo scrivere ciò che pensavo, ciò che volevo; il suo pubblico non era sensibile ai miei argomenti, capendolo mi sono dimesso nonostante fosse per me un ambiente lavorativo congeniale.
Sono stato cinque anni “fermo” ed è stata per me un’offesa considerando la mia passione per la scrittura.
Era il 1979, e come lei ci ricorda nel libro, Celati, mentre sta proponendo alla Einaudi la traduzione de “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” scrive:
“Lo so che in casa editrice mi considerate un rompicoglioni”
Dando un’occhiata alla nostra Penisola, al giorno d’oggi, quale figura si avvicina a quel tipo di rompicoglioni?
Celati è stato un rompicoglioni per tutta la vita, scrisse libri non destinati ad un grande pubblico ma sono libri di una qualità sopraffina.
Non tutti sono rompicazzi allo stesso modo, ad oggi direi un Buttafuoco oppure un Giuliano Ferrara che lo è stato ma ad oggi lo è ancora, è uno scrittore che ti sorprende ogni volta e certamente un rompicazzo è il sottoscritto.
Afferma di non aver mai letto Le confessioni di Sant’Agostino che immagina essere un libro grandioso ed aggiunge magistralmente “Noi tutti siamo fatti dai libri che abbiamo letto quanto dai tanti libri che purtroppo non siamo riusciti a leggere.”
Oltre a Le confessioni c’è un altro libro che non è riuscito a leggere ma che secondo lei meriterebbe una sua lettura?
Le confessioni di Sant’Agostino è un libro che è in casa, in uno scaffale alto della mia biblioteca e sono consapevole che è un libro molto importante per la cultura occidentale.
Non ho letto L’Ulisse di Joyce, è una sfida linguistico letteraria che si prolunga pagina per pagina e sono circa mille pagine, beato chi accetta questa sfida ma io non credo di volerla accettare.
Interessante è il suo racconto sugli Stones: la scena musicale secondo lei ha perso quel tocco di ribellione presente negli anni passati?
La storia non si ripete, i raduni o festival tipo Woodstock in quegli anni sono stati delle bombe atomiche, adesso quelle bombe atomiche non funzionano più.
In un mondo dove la musica si tiene in tasca e possiamo ascoltare tutta la musica della terra è ovvio che la stessa musica ne esce depotenziata, non può avere quella forza che aveva in quegli anni.
1981, Lugano, ha modo di intervistare l’anarchico conservatore, Prezzolini, nel libro ci fa una panoramica più che completa della persona che fu. Il primo aggettivo che le viene in mente pensando a Prezzolini e perché?
Eternamente giovane, andai a trovarlo che aveva quasi cento anni ma era di una prontezza e reattività indescrivibile, mi stava raccontando un episodio di oltre quant’anni prima e ricordò praticamente ogni particolare. Un personaggio inoltre di una generosità sopra le righe.
Siamo orfani di penne come quelle di Montanelli, perché non c’è stato questo ricambio generazionale secondo lei?
Ci sono delle ottime penne: Mattia Feltri, Aldo Cazzullo, Francesco Merlo…per citare tre miei amici, tre “ragazzi”.
Il ricambio vero e proprio era impossibile, un ragazzo che aveva vent’anni quando scriveva Montanelli aveva come sogno quello di scrivere su una rivista o su un giornale ma la primazia digitale ha distrutto la carta stampata, l’approfondimento dando luce a ciò che dura un quarto d’ora.
I lettori delle “cose che durano”, di quelle scavate in profondità ormai non ci sono più.
Ultima domanda: quali sono le caratteristiche principali di un “Rompicazzi” con la R maiuscola?
Saper correggere un proprio periodo precedente, una propria convinzione precedente e saper affrontare la rottura con i tuoi sodali di un tempo.
Serve il coraggio di fare scelte anche impopolari, fottendosene del numero dei followers e delle sgualdrinelle che oggi chiamano influencer…in questo modo aspiri al difficile mestiere del rompicazzi.